Nuove generazioni: un chatbot come guru

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Nuove generazioni: un chatbot come guru

I ragazzi vanno tenuti lontani dai supporti tecnologici? Lo sostiene un libro che ha fatto discutere tutto il mondo. Mentre altri studi al contrario indicano che le applicazioni aiutano gli adolescenti a essere creativi, a socializzare e perfino a capire che futuro desiderano

I ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT) hanno costruito un chatbot dotato di intelligenza artificiale che aiuta i ragazzi a decidere sul loro futuro. Gli utenti devono prima rispondere a una serie di domande su sé stessi, sui propri amici e familiari, sulle esperienze passate che li hanno formati e sulla vita ideale che immaginano per il futuro. Quindi caricano un ritratto, che il programma invecchia digitalmente per produrre un’immagine dell’utente a 60 anni. A questo punto, il chatbot genera ricordi plausibili basati sulle aspirazioni attuali dell’utente per raccontargli la sua stessa vita, basandosi sulle scelte che ha indicato, in modo da incoraggiarlo a pensare di più alla persona che vuole essere domani.

«L’iniziativa è molto utile per favorire l’autoconsapevolezza e introspezione e superare le resistenze di chi fatica a confidare i suoi sogni e timori, per esempio, a un terapeuta. Chi ti può consigliare meglio di te stesso?» premette Marco Lazzeri, co-autore del rapporto di Altrapsicologia (associazione nazionale di categoria degli psicologi che si occupa di politica professionale), su Adolescenza e Videogame, presentato alla Commissione Gioco del Senato italiano e membro della Sipsiol, Società Scientifica di Psicologia Digitale riconosciuta dal Ministero della Salute. «Il problema è che il presunto effetto positivo di questa e altre tecnologie va sempre validato da una peer review e da esami supplementari. Vale per questo chatbot del MIT, ma anche per i cosiddetti chatbot terapeutici, come Woebot. Nonostante il successo mondiale di questa piattaforma che usa l’AI per fare terapia digitale e che ha dimostrato su un campione di studenti di Stanford di poter ridurre in due settimane ansia e depressione, servono ulteriori dati e un follow up per capire se l’efficacia di Woebot è duratura. Insomma, per ora non dobbiamo per gridare vittoria, ma neppure demonizzare la tecnologia usata dai ragazzi».

Eppure, un saggio recente che ha fatto scalpore, The anxious generation di Jonathan Haidt, sostiene che l’ascesa degli smartphone abbia portato a un “ricablaggio” dell’infanzia e a un aumento delle malattie mentali.
Non si può ragionare per stereotipi, senza contare che Haidt cita solo dati americani e stabilisce una correlazione non dimostrata tra utilizzo dei social e sindrome depressive. Per di più il fatto di passare ore attaccati allo smartphone può essere non la causa di una depressione, ma il sintomo che qualcosa non va, segnalando pregresse problematiche familiari e scolastiche.

Lei, infatti, ha curato un documento sull’uso positivo dei videogiochi.
Sì, il nostro rapporto vuole dare un contributo scientifico recente ai possibili utilizzi dei videogiochi in ambito terapeutico e sportivo. Quando parliamo di dipendenze non dimentichiamo che riguarderebbero solo lo 0,3% degli adolescenti e mi pare poco per parlare di emergenza. Per converso, pensiamo all’impatto positivo dei cosiddetti “exergames”, come Wii fit o Just dance, che invece di impigrire i ragazzi aiutano a fare attività sportiva, inducendo a fare certi movimenti o interagendo con i ringfit. Noi abbiamo presentato anche ricerche effettuate in ambito cognitivo secondo le quali giocare agli exergames migliora le performance scolastiche, stimolando il pensiero laterale e l’attenzione. Già dal 2017 peraltro, in Michigan nel reparto pediatrico del CS Mott children Hospital si usa la realtà virtuale per aiutare i ragazzini ricoverati con tumori e la app di Pokemon go per stimolarli a fare fisioterapia. Questo per dire che altrove il pregiudizio è superato da tempo.

Come fa un genitore a capire se il figlio sta usando un supporto tecnologico che lo aiuta o lo danneggia?
Conoscendo gli strumenti di cui si parla. L’alternativa è affidarsi a etichette come quella promossa lo scorso mese da Dr. Vivek Murthy, una sorta di autorità americana sulla salute pubblica, per avvisare dei rischi di social media e tecnologia per la salute mentale degli adolescenti, seguendo il modello dei pacchetti di sigarette. Ma, premesso che a rispettare le etichette sarebbe probabilmente un adulto e non un ragazzino, un genitore innanzitutto dovrebbe evitare di usare la tecnologia come una tata, cui abbandonare i figli. E poi, bisogna trovare il tempo di osservare i segnali che un ragazzo figlio mi dà. Una chiave di lettura per indagare su un figlio potrebbe essere guardare insieme i social o giocare insieme. Un divieto totale come pure una libertà assoluta sono sempre un errore.

Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​