Lavoro: il robot non è una minaccia

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Lavoro: il robot non è una minaccia

Una delle lezioni della pandemia è la consapevolezza che le macchine non si ammalano, diversamente dagli umani. Le nostre fabbriche si riempiranno di robot?

Una delle lezioni che la pandemia del Covid-19 ci lascia in eredità è la chiara consapevolezza che i robot non si ammalano, diversamente dagli umani. E che, per raggiungere uno scopo, sono in grado di prendere decisioni più razionali di noi, che spesso orientiamo i nostri comportamenti in modo non conveniente o addirittura autolesionista – che dipenda da una cattiva informazione o dalla ridotta capacità di elaborare informazioni corrette, o invece da altre motivazioni che si agitano negli animi di ognuno. Questo vuol dire che le nostre fabbriche si svuoteranno di operai e si riempiranno di robot, immuni a ogni virus? E che in un prossimo futuro i comportamenti delle popolazioni saranno affidati alle decisioni prese da sofisticati algoritmi, capaci di elaborare in tempo reale grandi masse di dati e di sputare fuori sentenze e formulare norme cui uniformare le condotte collettive? Sembra uno scenario fantascientifico, eppure lo sviluppo delle tecnologie e dell’intelligenza artificiale ci porta a porci questi quesiti.

Già oggi gli strumenti della disintermediazione digitale si stanno infilando come cunei nel solco scavato tra élite e popolo, prestandosi all’opera di decostruzione delle diverse autorità costituite. Sembrano risuonare nuove parole d’ordine: «no intermediari! no gerarchie!». Meglio i continui feedback dei dispositivi digitali.

In consistenti porzioni della società si sta radicando così un nuovo mito fondativo della cultura web: la convinzione che il life-logging, i dispositivi di self-tracking, i servizi di social networking, inventati nella Silicon Valley e diffusi in modo capillare in tutto il mondo, capaci di registrare dati praticamente su tutto quello che facciamo, immagazzinarli e condividerli, potranno fornire ai bisogni delle comunità risposte più efficaci, veloci, economiche e verificabili di quanto finora sia stato fatto con altri sistemi.

Per migliorare così non soltanto il nostro benessere personale attraverso comportamenti più corretti (per promuovere una sana alimentazione, per esempio, o magari un’adeguata attività sportiva, sotto la sorveglianza di una specifica app installata sull’onnipresente smartphone, o per arrestare la diffusione del contagio di un virus). Ma anche per raggiungere la piena trasparenza nelle decisioni pubbliche, dando così soddisfazione ai movimenti antipartitici, sostenitori della democrazia diretta a colpi di mouse, per sbarazzarsi dei politici, tutti presunti corrotti e incapaci. Per questa via si arriverebbe a un uso finalmente smart e sostenibile degli spazi urbani. Si accederebbe a transazioni finanziarie per mezzo dei circuiti alternativi alle screditate banche tradizionali. Si conseguirebbero risultati inediti anche sul fronte della sicurezza e della giustizia (grazie ai big data e alla rinuncia a qualche porzione della privacy individuale). Secondo questa nuova mitologia costruita intorno agli strumenti della disintermediazione digitale e alle promesse dell’intelligenza artificiale, il popolo prenderebbe il proprio destino direttamente nelle sue mani, sottraendolo al controllo delle élite. Per finire però ‒ secondo le profezie dei più audaci scrutatori del futuro ‒ sotto il comando di una macchina, con i suoi microchip potentissimi e i suoi avveniristici ingranaggi.

In uno dei suoi ultimi interventi da presidente, pubblicato dall’Economist nell’ottobre del 2016, Barack Obama aveva ammonito: «Le forbici tra ricchi e poveri non sono una novità ma, proprio come un bambino da una baraccopoli può vedere i grattacieli attorno, la tecnologia consente a chiunque possieda uno smartphone di vedere come vivono i privilegiati. Le aspettative crescono più rapidamente di quanto i governi possano soddisfarle e un diffuso senso di ingiustizia mina la fiducia della gente nel sistema». La tecnologia digitale non è una pistola puntata alla tempia delle classi dirigenti, ma segna un radicale cambio di passo di cui tenere conto per evitare che quelle distanze si allarghino ulteriormente.

Di innovazione certamente ne è stata fatta tanta, nella rincorsa continua di brevetti sempre più promettenti: prototipi da trasformare in prodotti destinati al mercato di massa, da trasferire alle catene di montaggio nei paesi asiatici a basso costo di produzione. Gli algoritmi della personalizzazione, su cui si fonda l’operato delle grandi piattaforme del web, elaborano su basi induttive tutti i nostri clic registrati nel passato e riscrivono il codice che traccia il nostro ambiente mediatico. Finiscono così per condizionare le nostre preferenze e le scelte future ‒ condannando a morte i preziosi processi di serendipity, così misteriosamente umani.

Suppongo che, se io fossi un amante della montagna, a cui piace fare passeggiate d’estate sui sentieri alpini e andare a sciare d’inverno sulle piste innevate, la piattaforma di e-commerce che utilizzo lo saprebbe (lo avrebbe desunto dai miei precedenti percorsi di navigazione e dagli acquisti che ho effettuato in passato). Poiché la tecnologia punta tutto sull’efficienza e il risparmio di tempo, mi suggerirà di comprare un paio di scarponi, offrendomi la vista di diversi esemplari, magari a prezzo scontato. Probabilmente la asseconderò: in fondo, è ciò che mi piace, è quello che mi serve, lo so. Ma se, chiuso in questa bolla autoreferenziale, continuassi a godermi delle splendide albe in cima ai monti, non correrei il rischio di non venire mai a sapere quanto è struggente la vista di un tramonto in riva al mare, con i piedi nudi immersi nella sabbia?

In fondo, se ci si pensa bene, una delle più grandi scoperte della storia dell’umanità è avvenuta per effetto della serendipity, che significa trovare qualcosa in modo accidentale e imprevisto mentre si stava cercando qualcos’altro. Mi riferisco alla scoperta di Cristoforo Colombo, che nel 1492 salpò dalle coste spagnole convinto di tracciare una nuova rotta per raggiungere le Indie e invece si imbatté in un continente sconosciuto: l’America. E forse non è noto a tutti che un farmaco molto popolare come il Viagra, che ha cambiato in meglio la qualità della vita intima di milioni di persone in tutto il mondo, nacque dalla ricerca sperimentale per un medicinale che inizialmente doveva servire a curare i disturbi cardiovascolari. Fu una infermiera ad accorgersi di alcuni imbarazzanti effetti collaterali che si manifestavano nei pazienti sottoposti alla terapia, i quali durante le visite si mettevano sempre a pancia in giù sul lettino, per nascondere le inaspettate erezioni.

Dimentichiamoci la serendipity. La continuità personalizzata tra online advertising e e-commerce è il segreto del successo delle piattaforme attive sul web. Internet sembra così proiettata a diventare una gigantesca piattaforma commerciale taylor-made: un grande villaggio digitale, con le sue piazze, i cinema e la city hall, gli uffici pubblici e le banche, i centri commerciali. Nel frattempo, i big player della rete si attrezzano per presidiare in maniera sempre più efficace la nuova frontiera. Eppure, sono finiti sotto accusa per vizi peggiori di quelli dei vecchi capitani d’industria. Sono tanti i nodi che vengano al pettine: aspirazione di egemonia monopolistica (con relative sanzioni comminate per abuso di posizione dominante), meccanismi di elusione e evasione fiscale (con continui accordi parzialmente risarcitori con il fisco dei diversi Stati, dove si discute da tempo dell’introduzione di una web tax), profilazione degli utenti a scopi commerciali o di propaganda politica (c’è chi si spinge a dire che le ultime elezioni americane siano state vinte grazie ad azioni di questo tipo), sorveglianza elettronica e violazione della privacy (gli scandali emersi nella cronaca non si contano), mancato rispetto del copyright (editori e broadcaster tradizionali sono in guerra aperta con i new comers).

Ma adesso la pandemia spronerà un ulteriore salto in avanti nell’evoluzione dei robot , sia nelle modalità di produzione e distribuzione di beni e servizi, con dosi crescenti di automazione e robotizzazione negli impianti produttivi e logistici, sia nell’analisi predittiva dei comportamenti delle persone, con evidenti ricadute sul piano sociale. Un “salto di specie”, si potrebbe dire: una mutazione antropologica. Scelte più efficaci ed efficienti determinano forti riduzioni dei costi di produzione, ma implicano anche un periodo di transizione in cui dovremo fare i conti con gli scossoni del cambiamento. A cominciare dalla necessaria riconversione di ingenti porzioni di forza lavoro tradizionale, espulsa dai nuovi processi produttivi. Probabilmente in futuro l’intelligenza artificiale ci aiuterà anche ad affrontare meglio le epidemie. In fondo, nella storia ogni innovazione tecnologica è stata al servizio dell’uomo. E solo nella fantasia degli scrittori più arditi le macchine evolute si sono ribellate, hanno preso il potere e dominato gli umani. Nessuna macchina e nessun algoritmo potranno mai minacciare davvero ciò che ci rende veramente umani: i nostri misteriosi percorsi di serendipità.

Testo raccolto da Nicola Di Turi e pubblicato su Changes Magazine 6 – Intelligent Economy

irettore generale del Censis, dopo gli studi in Filosofia a Roma, si è dedicato alla ricerca sociale, economica e territoriale. È il curatore dell’annuale Rapporto sulla situazione sociale del Paese, considerato uno dei più qualificati e completi strumenti di interpretazione della realtà socio-economica italiana. Con Ponte alle Grazie ha pubblicato nel 2019 La notte di un’epoca. Contro la società del rancore: i dati per capirla e le idee per curarla.