A scuola con il chatbot nello zaino
Delle tante classifiche che vedono il nostro Paese arrancare, una delle più preoccupanti è sicuramente quella che periodicamente fotografa le scarse competenze intellettuali di b
Sviluppo, test, comunicazione e coinvolgimento dei consumatori sono le fasi che chi utilizza l’intelligenza artificiale deve saper dominare. Solo così potrà aumentare la creatività.
Che sapore avrà il futuro? Coca-Cola scommette che sarà quello di Coca-Cola Y3000, il prodotto in edizione limitata lanciato dopo un anno e mezzo di ricerca. L’azienda di Atlanta prima si è affidata alle risposte umane per identificare quali sapori le persone associano al futuro; quindi, ha utilizzato l’intelligenza artificiale generativa per determinare il sapore e il confezionamento più efficaci, individuando gli abbinamenti migliori e utilizzando immagini generate dall’intelligenza artificiale per creare una moodboard a cui ispirarsi.
Coca Cola ha anche invitato i clienti a “creare magia” utilizzando l’omonima piattaforma “Create Real Magic”, che combina GPT-4 per il testo e DALL-E per le immagini, in modo da generare opere d’arte originali a partire da un repertorio di immagini dagli archivi CocaCola. Anche il concorrente PepsiCo ricorre all’AI nei processi di sviluppo dei nuovi prodotti, il cui ciclo di sviluppo è passato da anni a mesi. Ne sono un esempio gli snack alle alghe “Off The Eaten Path”, nati da un’analisi di milioni di post sui social media, o la Propel Water, sviluppata per soddisfare le preferenze dei consumatori, sempre più interessati a ingredienti salutistici.
Eppure, il supporto dell’AI potrebbe rivelarsi un boomerang per chi lo usa per innovare, riducendo paradossalmente la creatività del risultato finale. Lo evidenzia uno studio condotto da Paola Cillo, Associata del Dipartimento di Management e Tecnologia dell’Università Bocconi, e Gaia Rubera, Amplifon chair in customer science e Capo del dipartimento di marketing dell’Università Bocconi, pubblicato sul Journal of the Academy of marketing Science, che esamina i rischi e le opportunità legati all’AI in quattro fasi principali del processo di innovazione di un prodotto: lo sviluppo, il test, la comunicazione e il coinvolgimento dei consumatori. In particolare.
Per quanto riguarda lo sviluppo di nuovi prodotti, sempre più spesso le aziende si affidano al coinvolgimento dei consumatori. Non mancano gli esempi di clamoroso successo, come la piattaforma Lego Ideas, un crowdsourcing dove sono gli stessi utenti a creare i prodotti che finiranno sul mercato. Eppure, mettono in guardia le autrici dello studio, «mentre noi immaginiamo che dare alle persone strumenti di AI le renda più creative» premette Gaia Rubera «in realtà succede qualcosa di diverso: quando i clienti traggono ispirazione da insiemi di idee simili, tendono a sviluppare idee meno innovative, accettando a occhi chiusi le soluzioni proposte dall’AI». Il rimedio potrebbe essere quindi di elaborare piattaforme che costringano gli utenti non a fissarsi sugli input originari, ma ad allontanarsene. Per esempio, si potrebbe strutturare un sistema in cui l’AI pone domande (invece che fornire risposte) per spingere i consumatori a deviare dall’idea originale per aiutarli a sviluppare, ad ogni iterazione, idee più creative.
La seconda fase esaminata dalle esperte della Bocconi riguarda il test dei prodotti. «L’AI serve anche per generare consumatori “in silico”, ovvero sistemi di AI che hanno memorizzato le preferenze dei consumatori e possono “sostituirli” per capire il futuro gradimento. Qui il prerequisito è di possedere molti dati reali, su cui fare finetuning» spiega Ribera. Tuttavia, questo approccio potrebbe non valere per ogni settore: occorre proseguire le ricerche per determinare per quali categorie di prodotti o marchi l’AI è più adatta a sostituire gli esseri umani. Il rischio di allucinazioni, infatti, non è ancora sparito, e può costare milioni di dollari alle aziende che decidono in base agli errori dell’AI.
Il terzo ambito esaminato dallo studio riguarda la comunicazione pubblicitaria.
Tra le prime campagna di comunicazione realizzate impiegando l’intelligenza artificiale c’è Unbottling Martini, la campagna per la quale la piattaforma Midjourney ha generato le rappresentazioni visive di nove cocktail Martini, realizzate a partire dagli ingredienti chiave delle bevande. Ma non tutti i brand potrebbero trovare opportuno dichiarare il ricorso all’AI negli spot, distingue Ribera. «Un marchio che vuole apparire all’avanguardia o futuristico rafforza la sua immagine di innovatore. D’altra parte, i consumatori potrebbero percepire un’incoerenza tra l’immagine innovativa autodescritta da un’azienda e il suo uso dell’AI per migliorare la creatività interna. Se sei così bravo da solo, insomma, perché ricorri al computer? E così alla fine un brand rischia di vedere il suo supporto dell’AI letto come un modo per tagliare i costi e i posti di lavoro più che per creare novità. Senza contare le implicazioni di un ricorso all’AI sulla percezione dell’autenticità di un marchio e sulla responsabilità sociale delle imprese».
Ritorniamo all’esempio di Real Magic, la piattaforma di Coca Cola che ha consentito agli utenti di generare immagini promozionali. «Grazie all’AI anche gli utenti con competenze minime di grafica potevano partecipare all’iniziativa di Coca-Cola» ricorda Rubera. «Era sufficiente dettare via prompt indicazioni al sistema. Peccato che, se la facilità di accesso ha permesso a Coca Cola di raggiungere più consumatori, lo scarso impegno richiesto dal compito ha abbassato il valore del loro coinvolgimento. Basti pensare a quanto più soddisfacente è fare un ritratto a mano, mettendoci magari un’ora, di un selfie. Pertanto, le aziende devono fare attenzione a definire il livello ottimale di utilizzo dell’AI dal punto di vista del consumatore, in modo da preservare in lui coinvolgimento e senso di appartenenza». D’altro canto, per quanto riguarda le aziende, la capacità di generare numerosi messaggi o idee di prodotto a un costo minimo in pochi minuti diminuisce notevolmente il valore delle “trovate”, rendendole più suscettibili all’imitazione e meno rare. E allora, la vera domanda che dovrebbe farsi un’azienda che voglia ricorrere all’AI è: se, grazie ai software, sia i consumatori sia le aziende vedranno crescere la propria capacità inventiva, la creatività avrà ancora valore oppure no?
Crediti foto: Dima Solomin/Unsplash