La musica nuova non suona più

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La musica nuova non suona più

Il 70% della musica ascoltata in streaming nel mondo è “vecchia”, aggettivo che qualifica qualunque brano non pubblicato nell'ultimo anno e mezzo. Le canzoni sono Boomer?

Play that same old song diceva una vecchia canzone (per l’appunto). Una frase che sintetizza, nel 2022, lo stato corrente dell’industria musicale e che suona più come un epitaffio per la musica nuova che un riconoscimento del valore di quella vecchia. La seconda si sta letteralmente mangiando la prima, come ha spiegato in un recente articolo su The Atlantic il noto critico jazz americano Ted Gioia. E questa, qualunque siano i gusti degli ascoltatori, non è certamente una buona notizia.

Gioia certifica la sua tesi con la fredda ma inequivocabile chiarezza dei numeri: nel 2021, secondo una ricerca della società di analisi MRCD Data, il 70% della musica ascoltata in streaming nel mondo è “vecchia”, aggettivo che qualifica qualunque brano non pubblicato nell’ultimo anno e mezzo. I primi 200 “successi” dell’anno (virgolette d’obbligo, considerando quanto è cambiato il concetto di hit: per raggiungere il disco d’oro servono meno della metà delle copie vendute, in formato fisico o no, di quante ne servissero venti o trent’anni fa) messi assieme rappresentano un decimo del totale dello streaming.

Una contrazione del mercato, quella relativa alla musica nuova, che appare in questo momento una tendenza ineluttabile e difficilmente reversibile. Ci sono altri indicatori, solo in apparenza più superficiali, che ci raccontano quanto il passato stia strangolando il presente, almeno dal punto di vista musicale. Se lo streaming può apparire troppo aleatorio come parametro (in realtà non lo è, anzi), basta ascoltare una qualunque radio, dove in programmazione ci sono sempre i soliti brani e spesso si ricorre all’evergreen per riempire i buchi. Oppure tendere l’orecchio alla colonna sonora in sottofondo nei locali, nei supermercati, nelle palestre, sulle spiagge: c’è il tormentone di turno, se va bene, e poi una tonnellata di classici. La classifica delle canzoni più scaricate da iTunes è tutta una sfilza di Police, Eagles, Beatles, Queen, Creedence Clearwater Revival, il nome più recente forse è Michael Jackson. Il disco in vinile più venduto in Italia nell’ultimo decennio è The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd. A proposito di vinile: quei pochi irriducibili che ancora frequentano i negozi di dischi avranno notato come lo spazio riservato alle ultime uscite si riduca sempre di più rispetto a quello destinato al cosiddetto catalogo.

Si tratta solo di nostalgia dei boomer per la musica della loro gioventù? Niente affatto: si provi a parlare di musica con un adolescente, nove volte su dieci citerà tra i suoi musicisti preferiti persone sepolte da anni piuttosto che l’ultimo rapper o trapper di grido. Chiudiamo con l’esempio più provinciale ma comunque significativo: la serata più seguita e commentata del Festival di Sanremo? Quella delle cover, naturalmente Si può continuare, ma insomma, la situazione è abbastanza chiara.

Le cause di questa “morte dell’oggi” in musica sono molteplici, e nel suo articolo Gioia ne elenca qualcuna.

  • La prima è banalmente statistica: tornando allo streaming, viene utilizzato dalla quasi totalità degli over 30, età nella quale si comincia a preferire la sicurezza della propria comfort zone, situata da qualche parte nel passato, rifuggendo dalla fatica delle nuove scoperte.
  • Lo strapotere delle playlist su Spotify, Tidal, Amazon Music e simili non invoglia certo all’avventura nella contemporaneità: gli algoritmi in questo sono di una precisione spietata. Se hai ascoltato per sbaglio un disco dei Rolling Stones comincerà a proporti soltanto musica simile a quella dei Rolling Stones.
  • Ma è la natura stessa dell’ascolto in streaming, e in particolare delle playlist, a sfavorire i musicisti contemporanei (a meno che non si chiamino Adele, Beyoncè o Ed Sheeran) persino quando sono playlist di “musica nuova”: è un ascolto quasi sempre di sottofondo, in cui le canzoni scorrono una dopo l’altra e in cui nessuno fa lo sforzo di andare a vedere chi la sta cantando e da quale disco è tratta. Tanto dopo ci sarà comunque un’altra playlist da ascoltare.
  • Ci sono poi ragioni più squisitamente culturali, legate un po’ allo spirito dei tempi e un po’ alla trasformazione radicale del nostro rapporto con l’arte e il tempo libero. Una di queste è quella “retromania” teorizzata dal critico inglese Simon Reynolds, tendenza affacciatasi già alla fine degli anni Novanta e diventata sempre più diffusa.
  • Da non sottovalutare l’impatto che ha avuto negli ultimi due anni la pandemia. Non tanto per la produzione di musica nuova (al contrario: i musicisti costretti in casa ne hanno creata in quantità mai viste), quanto per il (forse comprensibile) impulso delle persone a distrarsi ricorrendo alle proprie canzoni-rifugio.

Il ritorno del vinile contro il CD

Spostandosi dall’universo digitale a quello fisico non va meglio. Il formato del CD è moribondo, il vinile prova a tenere su la baracca ma, anche qui, lo fa con le ristampe o con l’usato. D’altra parte, anche chi è interessato alle novità sa perfettamente che la qualità sonora dei vinili attuali – la cui fonte è comunque digitale, nella maggior parte dei casi – non giustifica un costo che spesso è esorbitante (difficile trovare un vinile nuovo sotto i 25 euro).

Come dicono gli anziani, “una volta non era così”. L’industria musicale era trainata dalle novità, la sua stessa ragion d’essere stava nella ricerca e nella coltivazione di talenti sconosciuti che potevano garantire un ritorno economico. Apparentemente è quello che sostengono di fare anche oggi, ma la verità è che i milioni di dollari investiti nell’acquisto da parte delle corporation del catalogo di artisti oggi tra i settanta e gli ottant’anni (Dylan, Springsteen, Fleetwood Mac, Joni Mitchell e così via) toglie inevitabilmente risorse alla promozione di artisti giovani. Ai quali non rimane che la speranza di essere inseriti in qualche playlist di successo o nella colonna sonora di una serie tv famosa, evento che ha meno probabilità di realizzarsi di una vittoria alla lotteria.

Ma la musica in sé, in tutto questo, ha qualche colpa? La deduzione potrebbe venire spontanea: se quella nuova è così poco ascoltata, venduta, ricordata, non è che forse è perché è peggiore di quella vecchia? La risposta è no. Come in qualunque altra epoca storica, esiste moltissima musica interessante, stimolante, “nuova” nel vero senso della parola, cioè qualcosa che allarga i confini dei generi codificati. Musica che può essere l’equivalente odierno, solo per restare nella cronologia della musica registrata e non risalire ai trovatori medioevali, del jazz, del blues, del folk, del rock’n’roll, del soul, del punk, dell’hip hop, dell’elettronica e di infiniti altri macro e micro-movimenti che hanno segnato la loro epoca. Il problema è che questa musica bisogna andarsela a cercare, e nel 90% dei casi è destinata a languire nel proprio cono d’ombra mentre in radio continuerete a sentire Bohemian Rhapsody.

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​