Perché non possiamo fare a meno di Taiwan
Una storiella americana – quasi una leggenda metropolitana perché di difficile attribuzione – racconta di una grande impresa manifatturiera, probabilmente una cartiera di Chic
Gli open data sono fondamentali nel rapporto cittadino-PA e non solo. Il PNRR può dare una spinta notevole. A che punto siamo adesso?
Fateci caso, quando parliamo di dati spesso ci riferiamo al loro uso poco trasparente, alla loro indebita appropriazione, oppure al loro essere inconsapevole moneta con cui paghiamo servizi online solo apparentemente gratuiti. Attorno ai dati però oggi si gioca anche un’altra partita: quella di un loro utilizzo per una migliore conoscenza della realtà e per un più trasparente rapporto tra cittadino e amministrazione pubblica.
La chiave sono gli open data, dati pubblici e liberi di essere consultati, una volta messi a disposizione dalla PA o dalle aziende private. Sono in sostanza i dati aperti e accessibili utilizzati da un giornalista per condurre la sua inchiesta, oppure i dati sulla scrivania di un politico chiamato a valutare gli esiti di una decisione, i dati al vaglio di un’azienda intenta ad ottimizzare il proprio business, oppure ancora quelli consultati da ogni semplice cittadino per informarsi sulla condotta di una amministrazione pubblica.
In tutti questi e in tanti altri casi, gli open data possono giocare un ruolo fondamentale. Il problema è che troppo spesso le amministrazioni non forniscono dati, oppure li pubblicano in maniera incompleta o in formato tale da non poter essere rielaborato efficacemente. Nel campo degli open data, infatti, la forma è anche sostanza. Lo ha ribadito più volte nel corso della nostra chiacchierata telefonica Sonia Montegiove, giornalista, informatica, formatrice da anni impegnata sul tema degli open data.
Secondo Montegiove «non è aperto un dato pubblicato in formato PDF, non sono open data le tante tabelle che spesso troviamo sui siti della PA o le rielaborazioni di dati cucinati da altri e pubblicati, per esempio, sotto forma di report statistico». Secondo Montegiove, infatti, il dato aperto deve essere “grezzo”, presentato in forma di numero, «scaricabile semplicemente da un software e rielaborabile da chiunque, in quanto fornito di licenza che ne permetta l’uso e a un costo gratuito o fortemente contenuto».
Nella storia degli open data c’è una data significativa: l’8 dicembre 2009. È il giorno in cui, qualche mese dopo la sua elezione alla Casa Bianca, Barack Obama firmò l’“Open Government Directive”, un regolamento che concretizzava l’impegno di aprire i dati per rendere più trasparente l’amministrazione americana e contrastare così il grande (e spesso oscuro) potere delle lobby.
In Italia, tuttavia, il tema ha faticato a imporsi anche a causa, secondo Sonia Montegiove, di «un problema culturale. I nostri politici e amministratori devono prendere coscienza che dai dati pubblicati in maniera aperta e trasparente dipende il buon rapporto con la cittadinanza e l’efficacia dello stesso processo decisionale». E aprire i dati può portare anche a un ritorno economico. Già nel 2020, infatti, l’UE, prevedeva come «rendere disponibili i dati avrebbe potuto portare ai 27 Paesi un ritorno economico di 75,7 miliardi di euro».
A portare i dati al centro del dibattito politico ci ha pensato anche la pandemia da Covid-19. «I numeri, le statistiche e le indagini che fotografavano quotidianamente la situazione del contagio hanno fatto comprendere il valore del dato. Gli stessi vaccini sono frutto della condivisione delle conoscenze tra i diversi centri di ricerca». Purtroppo, però, questo processo di spinta verso una crescente rilevanza dei dati si è arrestato, proprio in una stagione in cui gli ingenti investimenti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza richiederebbero un grande sforzo in direzione di una maggiore trasparenza. «Molti dati sull’efficacia delle misure del Piano sono o nascosti o presenti in maniera poco riutilizzabile. Un peccato, visto che lo stesso PNRR può rappresentare una grandissima occasione anche nel campo degli open data», sottolinea Montegiove. Non a caso nell’ottobre del 2022, proprio in ambito PNRR, è stata lanciata dal Governo italiano la Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND), un progetto, previsto dal Piano, che abilita lo scambio di informazioni tra gli Enti e la PA e favorisce l’interoperabilità delle banche dati. Sui dati relativi al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, da segnalare c’è il lavoro della Fondazione Openpolis che ha lanciato Open PNRR, una piattaforma di raccolta dati sugli investimenti, lo stato d’avanzamento dei progetti del programma. Openpolis è una fondazione indipendente che porta avanti progetti di giornalismo basato sui dati (data journalism), e diverse campagne di sensibilizzazione sul tema della rilevanza civica dei dati. Tra le altre iniziative italiane c’è la piattaforma OpenCoesione sulle politiche di coesione in Italia lanciato dal Governo italiano, oppure gli open data messi a disposizione dall’ISTAT, oppure ancora la piattaforma dell’Agenzia per l’Italia Digitale dati.gov.it, che raccoglie dati nelle varie categorie e tematiche. Confiscati Bene 2.0, è invece un’iniziativa promossa dall’Associazione Libera per mettere a disposizione dati nel campo dei beni confiscati alla mafia.
Ma come è messa in linea generale l’Italia nell’uso degli open data? Bene, secondo l’ottava edizione dell’Open Data Maturity Report, che vede «l’Italia nel 2022 posizionarsi ottava tra i paesi europei con un rating complessivo pari al 91%». Occorre però precisare che questo rapporto si basa su un’indagine di autovalutazione da parte di 35 Paesi e inoltre, come sottolinea sempre Sonia Montegiove, «questi rating valutano la quantità, ma non sempre la qualità dei dati, ovvero il loro essere significativi, interessanti e aggiornati. In realtà in Italia – sottolinea Montegiove – siamo ancora lontani dalle best practice internazionali che arrivano dai paesi del Nord Europa, spesso esempio di open government a livello nazionale e locale». L’ennesimo divario da colmare in fretta se nel nome della trasparenza si vuole frenare davvero l’ormai dilagante calo della partecipazione politica e la crescita della sfiducia verso la classe amministrativa. Per liberare i dati però ci vuole soprattutto volontà politica, un fattore tutt’altro che di poco conto.