Welfare: perché il bleisure funziona

Society 3.0


Welfare: perché il bleisure funziona

Non più solo viaggi di affari: aumentano i dipendenti che “attaccano” giorni di svago ad appuntamenti di lavoro. Ecco perché questa tendenza di viaggio il bleisure rende il dipendente più felice.

Non più solo viaggi di affari: aumentano i dipendenti che “attaccano” giorni di svago ad appuntamenti di lavoro. Ecco perché questa tendenza di viaggio il bleisure rende il dipendente più felice.

​​​Forse non lo sapete, ma l’ormai accantonato – specie per chi gli studi superiori li ha appena finiti e guarda al futuro – esame di maturità di quest’anno ha trattato un tema che non è molto comune ai testi scolastici, eppure rappresenta sempre più una tendenza all’interno delle aziende.

Parliamo del bleisure, parola che nasce dalla commistione di business (affari) e leisure (svago) che è stato per l’appunto oggetto della prova in inglese per gli istituti tecnici per il turismo. Ai futuri diplomati, infatti, si chiedeva di leggere e rispondere a quesiti sulla comprensione dell’articolo di Rose Mary Murray-West sul Telegraph, dal titolo “The rise of bleisure trips”.

Per aziende people oriented

Una combinazione, quella del bleisure, che è parte di quel welfare aziendale che punta su piscine, corsi di yoga, biblioteche e benefit vari per rendere il dipendente sempre più gratificato, farlo “innamorare” dell’impresa e dargli la sensazione di essere non solo un lavoratore, ma qualcuno di cui si ha cuore il benessere presente e futuro.

Pertanto, sempre meno trasferte all’alba del giovedì per tornare magari il sabato mattina e sempre più viaggi di affari che uniscono il “dovere al piacere”. Ecco che hotel con spa e piscine non vengono più “usati” solo per dormire o fare una colazione fugace, il wi-fi non serve più solo a finire il power point da mandare al capo alle 2 di notte, ma diventano delle vere e proprie commodity di quando si allenta il nodo della cravatta, si toglie il tailleur e si capisce che davvero il lavoro è finito e si può pensare ad altro, senza per forza dovere tornare a casa.

O magari lavorando anche in modalità smart working e allo stesso tempo ritagliandosi delle ore per visitare la città, vedere una mostra aperta fino a tardi o assistere alla prima di un balletto. Come dire: il George Clooney, tagliatore di teste del film “Tra le nuvole”, che vive tra aeroporti e alberghi, collezionando punti millemiglia, è ormai fuori moda.

Ma perché c’è sempre più questa attenzione verso il bleisure? «Le aziende cercando di essere ‘people oriented‘», spiega Alessandra Boiardi, giornalista di business travel, «ossia di valorizzare le persone anche nelle loro competenze personali. E incentivare la produttività significa motivare e gratificare i dipendenti, fornendo beni e servizi che migliorano la loro vita in termini di utilità, ma anche di svago. E se programmi di welfare veri e propri sono per lo più proposti dalle grandi aziende, questo trend nel travel invece può e prende piede anche nelle PMI».

Ecco perché il bleisure è una vera e propria tendenza

Che “bleisure is booming” lo dicono, d’altra parte i numeri: i viaggiatori bleisure sono fuori per lavoro più di 6 volte all’anno e il 60% di loro ha esteso la trasferta di viaggio per aggiungere giorni di svago e, chi non l’ha ancora fatto, assicura comunque che è una delle prossime “to do” (72%).

Lo dice una ricerca condotta da Expedia Group Media Solution che aggiunge altre informazioni interessanti. I viaggi destinati a diventare piacevoli momenti di ricordo e tempo libero sono per lo più quelli da 2-3 notti e a più di 650 km da casa. Perché va da sé che puoi essere in una bella città, ma se ti trovi a 100 km da dove vivi, il primo istinto è tornare a casa e mettersi in pantofole.

Però, attenzione, che di motivi per dire no alla pigrizia ce ne sono parecchi: il 56% dei viaggiatori, infatti, si ferma più volentieri in posti in cui il buon cibo la fa da padrone, il 52% se ci sono le spiagge, la natura è influente per il 51% e visto che tutti siamo un po’ metereopatici, anche il bel tempo conta, almeno per il 50% dei lavoratori.

Ovvio che tutto questo è possibile se c’è il weekend di mezzo, il sabato è infatti un giorno che è facile “attaccare” alla trasferta di lavoro, sia che la parte lavorativa si concluda il venerdì che se tutti gli appuntamenti iniziano il lunedì mattina. Che è poi il cosiddetto bleisure “inverso”, di chi arriva prima dell’appuntamento di lavoro, si gode la città e si rilassa per arrivare preparato al meglio anche dal punto di vista mentale.


Ma bisogna considerare le policy aziendali

In ogni caso, «il vantaggio», precisa Boiardi, «è che gli spostamenti sono comunque prenotati dall’azienda. Ci sono dipendenti che magari prolungano la trasferta prendendo anche il venerdì o il lunedì, ma questo dipende dalle policy aziendali, sempre ammesso che siano chiare in merito a questi temi. L’ostacolo più grande infatti riguarda l’assicurazione: ricordiamo che un dipendente in trasferta è coperto dall’azienda, ma se il lavoro è finito cosa succede?».

Anche perché «da un punto di vista meramente pratico, fa fede la data effettiva di rientro, pertanto quando prolunga il suo viaggio, il dipendente risulta comunque in trasferta di lavoro e non c’è modo, visto che il sistema di prenotazione aziendale registra la data riportata sul biglietto, di distinguere tra giorni operativi e giorni di relax».

E a proposito di svago, quali sono le mete che più influiscono sul decidere di non rientrare subito? Sicuramente quelle intercontinentali. Tra il “quando mi ricapita” e il “sono troppe ore di viaggio per non restare ancora”, sono molti i manager, dirigenti ecc., che allungano le trasferte. Stando a una ricerca condotta nel 2017 da Carlson Wagonlit Travel, tra i leader dell’organizzazione di viaggi d’affari ed eventi per multinazionali nel mondo, le mete predilette oltreoceano sono Miami, Orlando, Las Vegas mentre in Europa “vincono” Barcellona e Lisbona e anche le italiane Milano e Roma non se la cavano affatto male.

Ok, fin qui tutto chiaro, ma chi a tutti gli effetti organizza la parte “ludica” del viaggio? Sempre stando alla ricerca di Expedia, la maggiorparte dei dipendenti lo fa personalmente (61%), prenotando hotel, voli (se si sposta) e cene. Tutta gente che si informa per lo più attraverso i motori di ricerca e dedicando fino a 5 ore – non moltissime – sia alla fase di ispirazione che di pianificazione.

Bleisure non vuol dire solitudine

Anche perché potrebbe capitare che l’hotel scelto dall’azienda si trovi in una zona residenziale o che è particolarmente frequentata durante la settimana, ma che si spopoli del tutto durante il weekend. Aspetto tutt’altro che trascurabile in viaggi di questo genere. Inoltre, prolungare un viaggio non vuol dire farlo in solitudine: organizzandosi per tempo, i dipendenti riescono a farsi raggiungere da mogli, mariti, figli o amici, usando magari anche i punti millemiglia guadagnati grazie ai viaggi di lavoro.

Il ruolo delle Travel Management Company

Allo stesso tempo, anche le Travel Management Company (TMC), che si occupano di gestire, insieme ai travel manager aziendali ogni aspetto del viaggio «cercano di proporre programmi che tengono in considerazione le nuove esigenze di viaggiatori e aziende, con travel policy anch’esse sempre più orientate sul benessere del viaggiatore», chiosa la Boiardi. «Per questo sia il comfort in viaggio sia il come occupare il tempo libero diventa materia di interesse e rientra nei programmi travel delle TMC, che prima si occupavano essenzialmente di transfer e pernottamenti».

I Millennials puntano sulle esperienze

Nel bleisure, poi, sono particolarmente attivi i Millennials. I ragazzi nati tra il 1980 e il 2000, che danno tantissimo valore alle esperienze e al fatto di sentirsi bene nel contesto lavorativo, tendono spesso a fare la “combo” (per dirla nel gergo giovanile) tra viaggio d’affari e di piacere. Così si comporta, stando a una ricerca di Travelport, il 61% degli intervistati e molti di loro prima di decidere cosa fare, si affidano a recensioni, ma anche video e foto postati dai marchi di viaggio sui social media.

Magari tra le diverse generazioni cambiano le modalità di informarsi, ma una cosa è certa: se è vero che le persone allenate a mantenere alto il livello di felicità la trasformano in abitudine, come dice il monaco buddista Matthieu Ricard, è altrettanto vero che le aziende in tutto questo non possono avere un ruolo passivo. Anzi, devono assicurarsi che qualsiasi aspetto venga preso in considerazione fino in fondo, dagli HR, ma non solo.

Siciliana di origine, trapiantata a Milano, ormai la “sua città”. Giornalista, scrive di lavoro, economia e innovazione. Ama i social, tra tutti Twitter dove cinguetta ogni giorno.