La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Come è possibile guidare un team di un’azienda senza subire i ritmi veloci imposti dalla digitalizzazione? La risposta è lo slow work
Come è possibile guidare un team di un’azienda senza subire i ritmi veloci imposti dalla digitalizzazione? La risposta è lo slow work.
Si intitola Superfast how to lead at speed, ed è il saggio scritto da Sophie Devonshire, autrice britannica, diventato un best seller in tutta Europa, Italia compresa, per aver acceso i riflettori e tentato di dare risposte concrete a un tema sempre più sentito oggi da manager e dirigenti d’azienda ovvero: come è possibile guidare team e imprese senza soccombere ai nuovi ritmi super-veloci del lavoro imposti dallo sviluppo della tecnologia e dalla digitalizzazione aziendale. La soluzione sembra stare nel saper gestire le proprie energie in maniera proficua per se stessi e per il rendimento sul posto di lavoro. Già perché come dice la Devonshire nel suo saggio: «L’energia (e non il tempo) è la risorsa più preziosa di ogni manager». Una logica che si basa su un principio tanto semplice da sembrare banale: «si può fare qualunque cosa ma non ogni cosa».
Alla differenza tra pensiero veloce e lento, nel 2012, ha dedicato una pubblicazione anche Daniel Kahneman, psicologo Usa che 10 anni prima vinse il premio Nobel per l’economia per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica. Il suo libro Pensieri lenti e veloci, altro best seller in America, sosteneva, infatti, che il pensiero umano funziona in base a due sistemi. Il Sistema 1, o pensiero veloce, che è inconsapevole, intuitivo e costa poca fatica. Il Sistema 2 che, invece, è consapevole, usa ragionamenti deduttivi, richiede molta più concentrazione, ed è ovviamente pensiero lento. Per Kahneman il pensiero veloce, seppur creativo, è alla base dei nostri errori. Come dire, la velocità è indubbiamente stimolante e adrenalinica, ma alla lunga è estenuante. Il fatto per esempio che negli ultimi anni molte aziende stiano chiudendo i battenti non dipende solo dalla crisi economica ma anche da manager supestressati da aspettative sempre più alte e da obiettivi sempre più sfidanti, costretti a prendere decisioni di pancia che non sempre si dimostrano essere quelle giuste. Così cala la produttività e aumentano i rischi.
Lo conferma anche l’indagine Work Force in Europe 2018, condotta da Adp, società di consulenza e servizi nell’ambito della gestione delle risorse umane, che ha coinvolto oltre 10 mila lavoratori nel Continente, di cui 1.300 in Italia. Dall’analisi, infatti, è emerso che nel nostro Paese il 32% degli intervistati fatica a essere produttivo sul lavoro e attribuisce questa situazione alla cattiva gestione delle risorse da parte di manager e dirigenti, a loro volta sottopressione per gli obiettivi aziendali da raggiungere in archi di tempo sempre più ristretti.
Ed è proprio in nome di una maggiore e migliore produttività che da un po’ di tempo anche in Italia si sta facendo strada il concetto di slow work. Un nuovo credo nato negli States, cuore pulsante del capitalismo e culla di convinti workaholic, che potremmo definire come la rivoluzione anti-stress che sta conquistando sempre più imprese. La chiamano anche “rinnovamento strategico” dell’energia al lavoro.
Uno dei guru del neomanagement è Tony Schwartz, ex giornalista e oggi consulente e direttore di Energy Project, società che si occupa di energia umana. Tra le società che segue ci sono grandi multinazionali del calibro di Apple, Google, Coca-Cola, Ford, Sony, Genentech, all’interno delle quali insegna ai dipendenti come è possibile lavorare slow. E non è il solo. La Business School di Harvard, per esempio, promuove un intero filone di studi che vanno nella stessa direzione: come esaltare la produttività rompendo con i vecchi modelli autoritari o stakanovisti che “spremevano” i lavoratori fino a esaurirli.
Slow work non significa lavorare lentamente o lavorare meno, piuttosto «crearsi momenti in cui dare spazio alla possibilità di rallentare per poi riaccelerare ed essere sì veloce ma anche più preciso», spiega Marina Osnaghi, fondatrice di Coaching and Coaching e prima Master Certified Coach in Italia. «Mediante la lentezza possiamo rilevare e rielaborare l’osservazione istintiva di quello che ci succede attorno, incentivando il cervello a capire cosa sta accadendo e a far diventare l’intuito un elemento concreto di lettura della realtà, per poi focalizzare ed indirizzare le forze con maggiore efficacia e di conseguenza poter costruire piani di azione logici che portano a soluzioni concrete». Per l’esperta bastano 5 minuti di lentezza che diventano decisivi per impostare strategicamente la giornata di lavoro. Dobbiamo insomma imparare dagli atleti che prima di affrontare la gara sanno già quante energie servono per raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo.
«La velocità che contraddistingue la nostra giornata tipo ci rende “eroi” che raggiungono mille risultati, ma anche molto approssimativi e poco soddisfacenti». Il mondo del lavoro sotto la spinta della velocità dettata dalle nuove tecnologie sta evolvendo e le organizzazioni attente devono adeguarsi. «Quando si parla di slow work si parla di un processo di cambiamento organizzativo che coinvolge anche gli spazi lavoro (vedi smart working), i cui obiettivi sono: migliore produttività, qualità del lavoro e precisione. Il che significa raggiungere un’alta capacità di concentrazione delle persone e della loro capacità di problem solving. Il tutto in ambienti capaci di offrire ai propri dipendenti condizioni di lavoro migliori», continua Osnaghi. «Senza riflessione i risultati rischiano di essere mediocri, soprattutto nei momenti di definizione dei piani strategici aziendali».
Già ma come muoversi in questa direzione in aziende dove viene chiesta la reperibilità 24 ore su 24? Dandosi una disciplina per gestire gli eventi senza l’ansia di dover fare tutto ma con la lucidità di fare le cose necessarie rimandando il resto. «Bisogna darsi delle priorità tenendo presente il contesto aziendale», dice l’esperta. «È importante avere una visione generale delle cose da fare che va al di là della cosa singola che faccio. E capire che la reperibilità 24 su 24 serve perché nell’arco della giornata ci possono essere eventi fondamentali che non posso tralasciare, ma altri appuntamenti o eventi sono negoziabili se non addirittura delegabili». Concedersi del tempo per pensare, fare l’inventario della situazione, stilare gli elementi positivi e negativi, stabilire un piano d’azione, usare il co-working per farsi aiutare dagli altri, sono tra i consigli che la coach dà per lavorare meglio e con maggior profitto, alleggerendo l’ansia da prestazione. A seguire il vademecum della Osnaghi sono ormai diverse aziende. «Sul tema oggi c’è molta sensibilità anche tra le imprese nazionali, ma non tutte sanno come muoversi» chiosa l’esperta. «Fondamentale è capire che il terreno per i cambiamenti organizzativi come questo va preparato per tempo e richiede tempo, senza farsi frenare dai budget limitati».