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La serie Strappare lungo i bordi di Zerocalcare è un inno transgenerazionale sulla vita che passa, sulle fine delle illusioni e sull’importanza di scegliere al momento giusto.
* Attenzione, questo articolo contiene uno spoiler
Strappare lungo i bordi è una metafora che sta a indicare il procedere lentamente e con circospezione nella vita, come appunto quando si strappa un foglio di carta seguendo una linea tratteggiata che fa da guida. Salvo poi ritrovarsi un po’ tutti, con il passare degli anni e lo sbiadire delle illusioni, a essere noi stessi un foglio sgualcito.
Accartocciati dal tempo, in una esistenza nella quale non siamo mai stati capaci di scegliere davvero autonomamente il sentiero da prendere.
Nella poetica di Michele Rech, alias Zerocalcare, le metafore regnano sovrane e spesso diventano pretesto per divagazioni e sotto-trame. Alcune non sempre calibrate, la maggior parte invece azzeccate e in grado di potersi trasformare in veri e propri tormentoni (o meglio: di diventare, con un termine più contemporaneo e abusato, “virali”). Quella che dà il titolo alla serie che il disegnatore romano ha creato, e in un certo senso anche interpretato, per Netflix appartiene sicuramente alla seconda categoria. Forse «strappare lungo i bordi» diventerà un modo di dire diffuso, insieme a un altro refrain che ricorre nelle sei mini-puntate (per circa un’ora e venti minuti di durata complessiva) ossia quel «s’annamo a pijà er gelato?» che Secco, l’amico punkabbestia che passa la vita a giocare a poker on line, ripete in continuazione.
Il successo di Zerocalcare – che con la serie tv ha coronato dieci anni di folgorante carriera, aprendosi definitivamente a un pubblico mainstream senza cambiare di una virgola la propria cifra stilistica – deve molto alla contagiosa comicità di una parlata e di un umorismo tipicamente romaneschi, che riportano idealmente ai personaggi del giovane Carlo Verdone aggiornati alla cultura dei millennial, ma c’è molto di più. Ed è qualcosa che ha a che fare con lo sguardo sul mondo e sui tormenti della vita, sulle relazioni con gli altri e con sé stessi in tempi di crisi (una crisi generalizzata che dura almeno da vent’anni, e che quindi si è mangiata tutta l’adolescenza e la giovinezza di Zero e dei suoi coetanei oggi quasi quarantenni).
L’arco narrativo fa scoprire questo “di più” a poco a poco, con una scelta di racconto particolarmente indovinata. Dagli episodi iniziali con i consueti, spesso irresistibili tranches de vie cui Rech ci ha abituati (le giornate spiaggiati sul divano a guardare serie tv ingurgitando junk food, i ricordi della scuola, i videogiochi, gli scambi su whatsapp, il rapporto con la figura materna, come sempre rappresentata nelle vesti di Lady Cocca del Robin Hood di Walt Disney, e quelle con la propria coscienza sotto forma di armadillo, nell’occasione doppiato da Valerio Mastandrea) la narrazione man mano si focalizza sul viaggio che Zero, Secco e l’amica Sarah compiono da Roma a Biella per andare al funerale di Alice. Una ragazza che ha attraversato le loro vite, in particolare quella di Zero, e che alla sua, di vita, ha rinunciato volontariamente. Alla fine si capisce che tutti i segnali disseminati nella storia, anche quelli all’apparenza più leggeri, trovano il loro senso e la loro funzione dentro la cornice più seria e malinconica. Così come si capisce il perché dell’espediente narrativo per il quale tutti i personaggi – eccetto appunto l’armadillo-coscienza – sono doppiati dallo stesso Zerocalcare, per poi solo nella scena finale trovare ciascuno una propria voce.
Raccontare di più sarebbe scorretto nei confronti di chi non ha ancora visto la serie, ma d’altra parte la storia non è nuova per chi conosce l’opera di Rech: già nel primo volume che lo rivelò nel mondo editoriale (La profezia dell’armadillo) si raccontava di un’amica morta suicida. L’Alice di oggi è la Camille di allora, le riflessioni dolci/amare sulla responsabilità che abbiamo nei confronti del prossimo così come sull’assurdità di ritenersi in qualche modo responsabili delle scelte altrui sono le stesse. A essere cambiato, dieci anni dopo, è il modo in cui l’autore padroneggia materia scivolosa come questa: più maturo e consapevole, per certi versi forse più rassegnato ma anche poeticamente più compiuto.
Giusto che sia così, perché il vero protagonista di Strappare lungo i bordi alla fine non è Zero, non sono i suoi amici, non è Alice, forse non è neppure il malessere disperatamente auto-ironico (e viceversa) dei trenta-e-qualcosa. Il personaggio principale è il tempo. Quello che spiana i sogni, che ci travolge – Zero che viene sepolto dentro una clessidra – silenziosamente e implacabilmente. Il tempo che fa apparire sotto una luce diversa le proprie mancanze e i propri (piccoli, rari) trionfi, che non sempre sana tutte le ferite ma può a volte renderle più tollerabili.
In questo senso l’epos generazionale di Zerocalcare diventa qualcosa di universale, in cui chiunque può riconoscersi anche se non ha la più pallida idea di cosa siano i manga o Sense 8, non è mai entrato in un centro sociale, non ricorda nostalgicamente, perché troppo vecchio o troppo giovane, l’epoca pionieristica e pre-social di MSN, non è stato a diciotto anni a Genova a farsi massacrare dalla polizia. Ma è comunque innegabile che sia la generazione di Zerocalcare quella più in grado di cogliere ogni minuscolo riferimento dell’artista di Rebibbia: è quello il loro linguaggio, è quello il loro sentire. Una generazione bloccata in un tempo immutabile – e che la causa sia stata lo shock del G8 del 2001, su cui appunto si apre la prima puntata della serie, oppure un mercato del lavoro che li ha costretti all’adolescenza perenne, poco importa – e che improvvisamente si trova a fare i conti con la spietatezza di quello stesso tempo che non li ha aspettati.
Può essere interessante a questo proposito il parallelo con un’altra generazione. La battuta di Secco sull’andare a prendersi il gelato molto probabilmente cita un film culto dei millennial, però di quarant’anni fa: Amore tossico di Claudio Caligari. Anche lì c’è la Roma delle periferie, ci sono giovani che si sentono fuori posto, c’è uno sguardo autoriale duro e dolce al tempo stesso. Ma i ragazzi tossicodipendenti di Caligari si ponevano completamente al di fuori della società, osservavano il vuoto che li divorava (anche loro attraverso il prisma dell’auto-ironia, che non è stata certo inventata dopo il 2000) ma preferivano l’autodistruzione a qualunque compromesso con la società che istigava a camminare “lungo i bordi”. I personaggi di Zerocalcare, ma ancora più la sua generazione, non hanno la forza di fare quel rifiuto e si macerano nelle proprie aspettative tradite. Non sono da giudicare, né gli uni né gli altri. Sono da raccontare. E se a farlo è qualcuno con la sensibilità e il talento di Zerocalcare, allora forse non si è una generazione così sfortunata. Almeno in quello.
Foto: Courtesy Netflix