La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Perché si impara più da una sconfitta che da 10 vittorie. Ma solo se si ha davvero il coraggio di rischiare tutto.
Francia, Tarbes. Anno 1999. Si sta disputando la semifinale del campionato del mondo di tennis per giocatori dai 12 ai 14 anni. Da una parte Richard Gasquet, soprannominato “il piccolo Mozart del tennis francese”. Dall’altra lo spagnolo Rafael Nadal. Entrambi hanno 13 anni, la stessa corporatura. Eppure, non c’è partita. Gasquet fa fuori Nadal con facilità. Sembra appartenere a un’altra categoria.Quel giorno Nadal perse l’opportunità di diventare campione del mondo nella sua categoria. Eppure, come lui stesso ammetterà più tardi, proprio quella sconfitta gli sarà utile come poche cose nella vita per diventare il Nadal che tutti conosciamo.
Secondo Charles Pépin, filosofo, docente e autore de Il magico potere del fallimento: «Quel giorno Nadal ha appreso in una sola sconfitta ciò che 10 vittorie non avrebbero potuto insegnargli».
E Gasquet?
Fino a 16 anni incalzò una vittoria dietro l’altra, con una facilità sconcertante. Ma a un certo punto paleserà alcuni limiti dal punto di vista attitudinale, caratteriale, che non riuscirà mai a superare. Non diventerà mai un fuoriclasse in età adulta. Nadal invece, quel giorno conobbe la prima virtù del fallimento: «Dobbiamo subìre una sconfitta nel passato per sapere che ne possiamo uscire in futuro». E allora, tanto vale iniziare subito.
I successi, ci ricorda Pépin, «sono graditi, ma il più delle volte insegnano poche cose (…) affrettiamoci a fallire, perché è solo la caduta che ci permette di conoscere la realtà». Ovviamente, non tutti i fallimenti sono generativi di nuove conoscenze e di apprendimento. Dipende da noi, da come reagiamo al palo in faccia che abbiamo appena ricevuto in pieno volto.
Se incolpiamo il mondo intorno a noi, le persone che remano contro, la sfortuna, impareremo poco. Certo, la sfortuna e la situazione potrebbero essersi messe contro di noi, ma sappiamo anche focalizzarci sui nostri errori e i nostri limiti? Cosa avrei dovuto sapere, fare, far accadere per ribaltare la situazione?
Ragionarci davvero, con quieta determinazione è di una potenza inaudita. Perché ci avvicina a capirli, questi dannati limiti. A volte persino a superarli.
Come è ben noto, in Italia e nell’Europa mediterranea la cultura del fallimento è riassumibile nel giudizio secondo cui: “Se fallisci, sei un fallito”. Il contrario della cultura anglosassone, in cui le cantonate sono (anche) connesse a spirito imprenditoriale, coraggio di rischiare e lanciarsi in esperienze variegate.
Il periodo pandemico e di tensione bellica che attraversiamo sta in realtà rimestando le carte in tavola per alcuni ragazzi di talento e che già godono di ampia fiducia in sé stessi. Ma la maggior parte continua a vivere un’ansia da prestazione costante. Dal loro punto di vista, commettere un errore nel percorso scolastico o lavorativo significherebbe ritrovarsi con la “fedina professionale” lordata da un crimine incancellabile. Il terrore dietro un fallimento è di “perdere il treno”.
Un discorso molto sentito anche in Francia, a sentire Pépin: «Se le cose stanno così, comprendiamo cosa manchi a così tanti allievi bravi, studiosi e regolari, che entrano nel mercato del lavoro senza incontrare difficoltà. Limitandosi a un percorso lineare, portando a termine con successo le mansioni affidate, che cos’hanno appreso?».
Il filosofo spiega che quando parla nelle aziende, spesso incontra manager che si presentano come HEC 82 o ENA 79, intendendo con questo di essersi diplomati alla HEC o alla ENA (tra le scuole francesi più esclusive). «Il messaggio implicito è chiaro: la laurea che sono riuscito a conseguire quand’ero ventenne garantisce la mia identità e il mio valore». Come se fosse possibile, e auspicabile, mettersi il prima possibile al riparo dal rischio, disporsi sui binari di una carriera segnata e definirsi, per tutta la vita, grazie a un successo ottenuto a 20 anni. «Come non vedere nell’ossessione per i titoli ottenuti da giovani una paura della vita, della realtà con cui è possibile fallire?».
Spesso gli capita di incontrare un tipo di professionista dal profilo ben preciso, che lo lascia interdetto. Ecco il profilo: «Dopo validi studi in scuole di commercio, economia o ingegneria, è entrato in una grande impresa dove fa carriera da una quindicina d’anni. È vicino/a alla quarantina e, senza aver mai fatto colpi di testa, senza essersi mai assunto un vero rischio, senza aver mai compiuto un grosso errore. Si trova a ricoprire un incarico di responsabilità, guadagnando bene, ma con la sensazione di passare accanto alla propria esistenza (…) Sovente mi confessa che un altro potrebbe svolgere il suo stesso lavoro».
Queste persone sono vittime collaterali dell’attuale trionfo dei processi in tante aziende, regole che da mezzi sono diventate dei fini, che inibiscono ogni rischio: «Ascoltandoli mentre confessano il loro sentimento d’inutilità, percependo la loro sottile apatia, si capisce come una vita che non si espone ai rischi si spenga poco per volta».
Ci ho riflettuto, in quest’ultimo anno. Dai confronti con clienti, colleghi e amici, credo che ciò che manchi ad alcune persone, e che dovrebbero essere introdotte nelle aziende, sono le potenziali sconfitte generative: situazioni ad alto rischio che impegnano al massimo, che ci pongono dinanzi a situazioni inedite, non pianificabili, in cui è necessario osare, e in cui il feedback è immediato.
Provate a pensarci: qual è stata una sconfitta generativa del vostro recente passato, che vi ha permesso di migliorare e di crescere davvero? E quali sconfitte generative intravedete nel vostro prossimo futuro?
Se la risposta a entrambe le domande è “nessuna”, avete un bel problema.
Nietzsche ne era convinto: «Diventa ciò che sei, nessuno lo farà per te. Almeno tenta, perché anche se fallisci, ce l’avrai fatta: fallirai in un modo che può essere soltanto tuo. Non vi è rischio maggiore che non tentare e trovarsi in punto di morte senza sapere chi siamo».
In modo molto più prosaico, ma a me molto più familiare, l’altro giorno scorrazzavo in macchina con mio zio. Una persona ruspante come poche. Aveva appena compiuto 65 anni…
«Te l’ho detto che ho ripreso a giocare a rugby? Con i trentacinquenni!»
«Zio, sei matto? Ma se ti fai male? »
«Il rischio c’è. Ma quando gioco mi sento vivo. A quanto ho capito arrivando a 65 anni, ne vale la pena».
Non vi consiglio di rompervi l’osso del collo. Ma rischiare di più, a costo di prendervi un bel palo in faccia “generativo”, quello decisamente sì.