Si fa presto a dire: “fare rete”

Society 3.0


Si fa presto a dire: “fare rete”

La capacità di networking si divide tra uno stile “becero” e uno “pulito”. E tessere relazioni può diventare una forma di comunicazione etica.

Negli ultimi anni si è parlato moltissimo della capacità di fare rete, dell’importanza dello sviluppo dei contatti per innescare opportunità di lavoro e di vita. Trattando l’argomento come formatore, mi sono reso conto di come la maggior parte delle persone lo ritenga un argomento viscido: «Entro in contatto con te per ottenere qualcosa».


Certo, posso avere esigenze legittime, palesarlo in modo aperto e anche imbastire una relazione fruttuosa e amichevole, ma sul fondo si respira un clima di opportunismo. Spesso me lo sono domandato anch’io, come depurare tale clima. Ero anche convinto che la cultura italiana e mediterranea facesse la sua parte. Qui da noi vige la clamorosa contraddizione per cui se chiedi a uno sconosciuto di aiutarti “sei messo male”, ma supplicare di nascosto qualcuno di trovare lavoro a qualcun altro, non per meriti ma in virtù del grado di parentela o amicizia stai compiendo un’azione socialmente ammirevole. Ed è il motivo per cui su LinkedIn inizialmente le recommendation non attecchivano: lo traducevamo come “raccomandazione” all’italiana, associandola a una pratica da tenere sotto il tappeto. Il networking anglosassone invece è una segnalazione pubblica basata sulle capacità della persona. Negli USA è sdoganato, da decenni si tengono una marea di corsi su come sfruttare le dinamiche di rete.


Per questo, quando mi sono addentrato tra le pagine di Chimica Sociale di Marissa King sono rimasto interdetto. La ricercatrice riporta come anche in America il networking è considerato dai più una pratica becera e opportunistica. La motivazione?
Perché molte persone che iniziano a “fare networking” si muovono in modo becero e opportunistico senza rendersene conto, come se andassero a caccia di figurine. «Perché tanta gente partecipa alle conferenze? Per fare nuove conoscenze» spiega la King. «C’è la convinzione che il semplice fatto di conoscere altre persone si tramuti magicamente in valore. Tuttavia, conoscere più persone non crea più valore. Crea semplicemente più lavoro».

Uno studio pubblicato su Organization Science nel 2014 ha scoperto che due manager americani su su tre erano restii a pensare alle relazioni in maniera strategica. Provavano ribrezzo per il networking.
La King ricorda come nei suoi corsi di Business Administration, quando si parla di networking, la gente inizi a sentirsi fisicamente a disagio. Prima di partire chiede ai partecipanti: «Sinceramente, cosa ne pensate del networking?».

Molti rispondono di getto: «Mi fa ribrezzo, ecco. Non fai che lisciare il pelo a gente che non conosci, coltivando il tuo giro e mettendoti subdolamente in vendita, anche se in modo indiretto». «Entri in connessione con gente da cui non sei minimamente attratto sul piano personale. ‘Costruisci relazioni’ quando, di fatto, non hai intenzione a intrecciarne». «Distribuisci like e strette di mano con il fervore di un cagnolino addomesticato». Non hanno tutti i torti. È comprensibile. Ci insegnano che il valore dei legami è inestimabile. Non dovrebbero essere pianificati o mercificati. Pensare alle relazioni in prospettiva intenzionale può far salire la nausea sotto il profilo etico.

Quindi, bando al networking? Non esattamente. Grazie al trio italo-iraniano di ricercatrici composto da Tiziana Casciaro, Francesca Gino e Maryam Kouchaki è venuto a galla il profilo del networker “pulito”. Le persone allo stesso tempo più abili a intessere nuovi contatti e creano relazioni sane sono coloro che credono di avere di avere molto da offrire agli altri.

Se ritenete di poter offrire consigli, risorse, altri contatti, o semplicemente tempo per ascoltare gli altri, il networking cambia volto: si tramuta in un’attività eticamente rigogliosa, oltre che più piacevole.

Come sanno bene i sociologi, il mattone fondamentale delle relazioni sociali è la reciprocità. Se iniziamo uno scambio sociale domandandoci “cosa potrei fare per lei/lui?” imbastiamo reti più ricche e affidabili, e nel lungo periodo tendiamo a trarre maggior beneficio per noi.

Lo studio conferma che donare agli altri genera quella luce calda che gli psicologi definiscono Helper’s High, una sensazione di benessere che ci pervade quando aiutiamo qualcuno. A livello neurologico, nel cervello si attivano le stesse aree di elaborazione della gratificazione che vengono stimolate quando otteniamo un risultato per noi importante o riceviamo soldi o onorificenze che ci spettano. «Oppure quando mangiamo un buon gelato» concludono le tre ricercatrici.

Qualcuno lamenterà: «Ma come, io do tutto agli altri e gli altri non ricambiano mai, vengo sempre sfruttato, mi fregano di continuo!». Il mondo pullula di approfittatori seducenti: dobbiamo imparare a indirizzare i nostri sforzi relazionali verso persone che se lo meritano. Perché esistono.

La mia prima "startup" è stata una rock band in cui ho suonato per dieci anni, poi la vita mi ha portato alla cultura digitale. Ho pubblicato numerosi saggi, tra cui #Contaminati e Digital Skills, e il romanzo I sogni di Martino Sterio. Oggi sono Partner e Digital Learning Strategist in Newton, dove sviluppo percorsi di innovazione per grandi aziende, e coordinatore Master Digital per la Business School Sole24Ore. Contaminare la scrittura con la formazione mi rende felice.​