Perché le città sono resilienti

Society 3.0


Perché le città sono resilienti

La parola d'ordine per le città del futuro è sostenibilità sociale. Entro il 2030 i centri urbani dovranno ospitare un miliardo di nuovi cittadini. Un flusso inarrestabile che va dove c'è più lavoro, più ricchezza e più vita sociale.

La parola d’ordine per le città del futuro è sostenibilità sociale. Entro il 2030 i centri urbani dovranno ospitare un miliardo di nuovi cittadini. Un flusso inarrestabile che va dove c’è più lavoro, più ricchezza e più vita sociale.

L’importanza delle città è di certo capitale. Pensiamo soltanto a quattro numeri: 2, 50, 75 e 80. Le città occupano il 2% della superficie del mondo, ma ospitano fino al 50% della popolazione mondiale, sono responsabili del 75% del consumo energetico globale e dell’80% di emissioni di CO2. Ogni azione di miglioramento delle nostre città può quindi avere un impatto decisivo a livello globale – a livello di sostenibilità sociale ed ambientale. Per questo si parla sempre più spesso di urbanesimo resiliente. Chi sono e quali sono i soggetti e che possono contribuire a questo cambiamento? La resilienza è una qualità fondamentale, uno dei veicoli dell’innovazione urbana. Ebbene: per fortuna non esiste soltanto una strada o un tipo di soggetto che può contribuire a rendere le nostre città più resilienti. Pensiamo, ad esempio, ai cicli dell’innovazione, e ai modi in cui le nuove tecnologie vengono adottate in campo urbano nel corso del tempo.

Tutte le nuove tecnologie, all’inizio, sono molto costose e tendono ad aumentare le fratture sociali. Ma col tempo la situazione si può rovesciare, come abbiamo visto con i telefoni cellulari. Strumento accessibile a poche persone nei Paesi avanzati all’inizio, oggi stanno permettendo dinamiche inaspettate di leapfrogging, ovvero il salto, una delle parole chiave per capire l’evoluzione tecnologica e sociale in diversi Paesi in via di sviluppo, a partire dall’Africa. Si tratta di quel fenomeno che permette a quanti sono ‘rimasti indietro’ di superare coloro che prima erano avanti: una forma di resilienza applicata al rapporto tra società e sviluppo tecnologico.
La maggior parte dei Paesi in Africa ha evitato la connessione con i fili per passare direttamente al wireless. E i cellulari sono oggi spesso usati in modi nuovi, ingegnosi e più sofisticati di quanto avvenga in Europa o negli Stati Uniti. Lo stesso sta avvenendo in altri campi a partire dalla mobilità, dalla progettazione urbana o dalle modalità di pagamento. Pensiamo ad esempio alla Cina: nel mercato dei pagamenti, in pochi anni, il paese ha parzialmente saltato la fase delle carte di credito ed è passata direttamente dai contanti al pagamento digitale tramite smartphone.

Dobbiamo fare i conti con un’idea di futuro della città soggetta a una metamorfosi continua dove non c’è posto per utopie né tantomeno per distopie. Molto semplicemente: tentare di prevedere il futuro è il modo migliore per prendere delle cantonate tremende. Il metodo del “futurecraft” propone un approccio diverso: quello di usare il design come strumento per condizionare il futuro, secondo il vecchio adagio di Alan Kay per cui «il modo migliore di prevedere il futuro è di inventarlo». Secondo questo metodo, i nostri progetti hanno un ruolo di “agenti mutageni” per il mondo artificiale. Iniziamo ipotizzando uno scenario futuro, proviamo a immaginare come farlo andare in scena, e quali sarebbero le conseguenze: a questo punto di solito abbiamo in mano un progetto, che quindi possiamo iniziare a diffondere, per provocare discussioni e dibattiti. Se le reazioni del pubblico saranno positive, il progetto potrà andare avanti, ed eventualmente contribuire a creare un pezzo di futuro: future-craft, appunto. Ma quel che conta, ancor più se quel progetto verrà effettivamente realizzato, è la capacità della discussione collettiva di indirizzare la nostra immaginazione verso un mondo che desideriamo.

Come sarà la città di domani, allora? Mi spiacerebbe deludere i fan di film come Metropolis o Blade Runner. Tuttavia temo proprio che la verità sia questa: le città del futuro non saranno poi troppo diverse da quelle di oggi. Non nell’aspetto fisico, perlomeno. In fin dei conti, le metropoli del 2016 non differiscono così tanto dalle città d’epoca romana o medievale (ne è una riprova il fatto che i centri storici nei quali ancora abitiamo, a Roma come a Spalato, spesso risalgono proprio a quei tempi). Possiamo sognare i più arditi prodigi tecnologici o architettonici, ma nelle nostre case avremo sempre bisogno di piani orizzontali, di facciate per proteggerci dagli elementi, di finestre come interfacce verso il mondo esterno, o di muri verticali per separare gli spazi interni.
Quello che invece cambierà saranno i nostri modi di fare esperienza della città. Spostarsi, gestire le risorse energetiche, incontrarsi, fare acquisti, lavorare, comunicare: tutte queste attività quotidiane potrebbero essere molto diverse da come sono oggi. Pensiamo a una giornata tipo degli anni Novanta, senza telefoni cellulari e con Internet a singhiozzo: che differenza rispetto al presente! Nel futuro prossimo andremo incontro a molti altri sviluppi di questa portata.

Non c’è nulla di preordinato in questa evoluzione guidata dalla potenza esponenziale della tecnologia. La loro formula consiste nell’idea che non dobbiamo subirla, la tecnologia, ma sfruttarla in modo variabile. In che modo? Credo sia fondamentale usare le tecnologie per diffondere consapevolezza delle sfide del presente, e reagire di conseguenza. Un esempio: qualche anno fa con il MIT Senseable City Lab abbiamo sviluppato Trash Track, un progetto che permette di tracciare il percorso che fa la nostra spazzatura una volta che finisce nel cestino. I risultati ottenuti, oltre a essere utili per una migliore gestione dei rifiuti, hanno promosso anche un cambiamento nel comportamento delle persone – tanto che una persona ci ha detto «ho sempre bevuto in bottiglie di plastica, di cui mi dimenticavo l’esistenza una volta buttate. Tuttavia, dopo il progetto e venendo a scoprire che le bottiglie vuote finivano in un campo non lontano da casa mia, ho deciso di smettere di bere in bottiglie di plastica». Un piccolo aneddoto, ma significativo di come il mondo dei dati, di per sé può avere un grande impatto.

Fin dalla loro comparsa, circa diecimila anni fa, le città sono state un grande motore d’innovazione. Trasporti ed energia sono sempre stati due anelli importanti e oggi non è diverso. Ma direi che c’è un elemento in più da considerare: il rapporto tra natura e città. Credo dobbiamo inseguire un nuovo paradigma rispetto a quelli del passato. Nel Ventesimo secolo l’idea prevalente era quella di portare la città verso la campagna. In Inghilterra Ebenezer Howard coniò il termine “Garden City”, e presto molti satelliti di Londra seguirono quel modello. Pochi anni dopo, sull’altro lato dell’Atlantico, Frank Lloyd Wright teorizzò Broadacre City: città di ampi spazi in cui la natura regnava sovrana. A molti decenni di distanza ci troviamo in una condizione diversa. Non più la città che conquista la campagna, come nel secolo passato, ma la campagna che ritorna in città. Grazie alle nuove tecnologie, infatti, oggi possiamo portare il verde dove prima non c’era – pensiamo ad esempio alla coltivazione idroponica o alle tecnologie della rete che sostengono il successo degli spazi di urban farming o agli interventi di micro-urbanistica – come ad esempio, il padiglione Living Nature che abbiamo realizzato per il Salone del Mobile in piazza del Duomo a Milano nell’aprile 2018, con lo studio Carlo Ratti Associati – o veri e propri parchi come il grande parco lineare che abbiamo progettato a MIND per riconquistare l’asfalto del vecchio Decumano. Interventi di “agopuntura urbana” – padiglioni, strutture trasformabili, pedonalizzazioni temporanee di aree pubbliche – ci ricordano come il contatto con il verde e con la natura – variabili fondamentali per il nostro benessere e tuttavia spesso dimenticate da progettisti del Novecento – avrà un ruolo fondamentale nella città di domani.

Testo raccolto da Roberta Caffaratti

Architetto e ingegnere, ha fondato lo studio CRA (Torino e New York) e dirige il Senseable City Lab al MIT di Boston​, un gruppo di ricerca che esplora come le nuove tecnologie stanno cambiando il modo in cui noi intendiamo, progettiamo e viviamo le città. La rivista Esquire lo ha inserito tra i “Best & Brightest”, Forbes tra i “Names You Need to Know” e Wired nella lista delle “50 persone che cambieranno il mondo”.