Per chi suona la (T)Rap

Society 3.0


Per chi suona la (T)Rap

Oggi il rapper o il trapper ha forse più in mente Flavio Briatore di Tupac Shakur. La musica e l’atto artistico sono diventati, più che un fine, un mezzo per monetizzare.

Quando si parla di rap oggi, soprattutto sui canali di informazione mainstream, spesso si fa involontariamente riferimento a un modello che, sia dal punto di vista strettamente musicale sia da quello in un più ampio senso social-culturale, appartiene al passato. Il “rap”, negli anni Venti del nuovo millennio, è cambiato inevitabilmente moltissimo rispetto a ciò che era negli anni Novanta del vecchio, quando si impose come genere trainante dell’industria musicale e iniziò un dominio (delle classifiche e dell’immaginario giovanile) che prosegue tuttora incontrastato o quasi.

Sono cambiati i suoni, la tecnologia che ne è alla base, il modo di articolare il cosiddetto flow verbale, le tematiche e soprattutto l’atteggiamento di chi lo pratica. Nel 2023 chi dice “rap” intende piuttosto, anche quando non lo sa, un macro-genere chiamato “urban”, del quale il rap è sicuramente una componente fondamentale ma mescolata al classico pop radiofonico e/o sanremese, alla famigerata e fraintesa trap, a una versione plastificata del soul/r&b e più in generale a un’estetica nella quale il vocabolario crudo della strada si unisce al culto del successo, del denaro e della commercializzazione più esasperata. È il suono che prorompe ormai da qualunque canale: dalle radio alla televisione, da YouTube alle playlist di successo sulle piattaforme di streaming (quelle che garantiscono guadagni consistenti in un panorama altrimenti desolante per quanto riguarda la remunerazione dei musicisti). È il mondo monopolizzato dai nomi che troviamo, ad esempio, nella top 20 italiana (nel senso di ascolti nel nostro paese, ma anche di artisti che vi compaiono visto che non c’è un solo straniero) di fine anno resa nota da Spotify. L’universo di Sferaebbasta, Lazza, Ultimo, Massimo Pericolo, Geolier, Shiva, Blanco e decine di altri (la declinazione al maschile non è casuale: di donne ce ne sono pochissime). A cominciare, naturalmente, da colui che oggi rappresenta il benchmark del rapper/imprenditore di successo/brand ambassador di marchi e a volte anche di cause sociali, da solo o in coppia con la altrettanto potente consorte Chiara Ferragni, e cioè l’ubiquo Fedez.

Distanza siderale con il passato anni Novanta

Nonostante qualche tenue legame con la “vecchia scuola”, e sparute dichiarazioni di appartenenza da parte di qualcuno dei nomi citati a una tradizione culturale ormai lunga mezzo secolo, la distanza con il rap italiano degli anni 90 è abissale. Il rap delle cosiddette “posse”, nato e diffusosi nei centri sociali, aggressivo, politicamente motivato e orgogliosamente anti-mainstream. Quello degli Assalti Frontali, dei Sangue Misto e di Frankie Hi-NRG. Se allora la cultura hip hop – della quale il rap è una disciplina, insieme a breakdance (ballo), writing (graffiti) e djing (mixare e fare scratching con i dischi) – guardava con venerazione alle radici americane dei Public Enemy e di LL Cool J, con l’intento di creare davvero una scena nata dal basso che raccontasse la vita così com’era nei vecchi e nuovi ghetti sociali e quindi fungendo persino da veicolo di contro-informazione (concetto che echeggiava la celebre definizione statunitense del rap come “CNN dei neri”), oggi i modelli di ruolo e le ambizioni sono radicalmente di segno opposto.

L’ambizione di arrivare al successo, così come il vantarsene una volta raggiunto, tutto sommato fa parte da sempre della filosofia rap. Così come, dall’altro lato, una certa coscienza sociale permane in alcuni degli artisti di oggi, in particolare quelli che, come Ghali, raccontano il punto di vista degli immigrati di seconda o terza generazione, cresciuti in contesti non facili e in un paese che, nonostante siano italiani a tutti gli effetti, tende ancora a bollarli come estranei. Eppure, il mutamento antropologico nella figura del rapper contemporaneo è impressionante, ed ha a che fare, oltre che con l’ovvio rinnovamento generazionale di musicisti e pubblico, soprattutto con le trasformazioni epocali dei media. Dai centri sociali autogestiti a TikTok e YouTube, dai dischi pubblicati ogni due anni ai mixtape fatti uscire a getto continuo, il salto è enorme. E comporta un modo di porsi sul mercato, e di auto-rappresentarsi, completamente diverso.

Oggi il rapper/trapper, se è concesso il paradosso un po’ estremo, ha forse più in mente Flavio Briatore che Tupac Shakur. La musica e l’atto artistico sono diventati, più che un fine, un mezzo per monetizzare immediatamente e per colonizzare fin tanto che è possibile l’immaginario adolescente e preadolescente della Generazione Z. Quella per cui quasi la metà dei suoi rappresentanti, secondo un recente sondaggio commissionato da Adobe, sogna di diventare influencer o creatore digitale.

Produzione continua

E non si può capire il ruolo e le modalità di comunicazione dei rapper odierni senza tenere conto, per l’appunto, della “creator economy”, ossia il modello di marketing che prevede un flusso ininterrotto di produzione di contenuti sulle piattaforme digitali che oggi muove una quantità di soldi senza paragoni (secondo Goldman-Sachs circa 250 miliardi di dollari a livello mondiale). Produzione di content finalizzata alla costruzione di una rete di follower il più possibile vasta, fedele e radicata, in modo da diventare appetibili per brand di qualunque tipo. Il metro del successo non sono più i dischi d’oro né tantomeno la rilevanza culturale quanto i contratti con marchi di alcolici, del fashion o dell’automotive. Gli stessi contenuti non si limitano alle canzoni, ma si estendono a una quantità di “prodotti” – video, tweet, post, stories, opinioni su qualunque argomento caldo, sponsorizzazioni, comparsate in favore di smartphone a eventi pubblici e spesso a concerti di colleghi – che nel loro insieme fanno da architrave allo storytelling di sé stessi. Che in quanto tale, e in un contesto estremamente volatile come quello digitale, non può permettersi pause né la minima sottovalutazione dei trend del momento.

Il mondo del rap, che una certa fascinazione per il jet set, il denaro facile e il marketing l’ha sempre avuta, è indubbiamente più strutturato di altri ambiti musicali per reggere i livelli stressanti di performance imposti dalle esigenze degli algoritmi e di un pubblico perennemente bombardato di contenuti. I rapper, in questo senso, hanno le physique du role. Ma tutto questo ha un prezzo. Anzi due. Il primo è il rischio di burnout legato all’obbligo di esserci sempre, di essere sempre rilevanti, di dover stare al passo con le richieste dei fan (con un inevitabile, dal punto di vista della proposta musicale, abbassamento della qualità). Il secondo è il definitivo recidere i legami con quella “strada” che fin dagli albori era la ragion d’essere e la matrice di questa forma di cultura, scegliendo invece di vivere in pianta stabile nel “palazzo” del capitalismo più sfrenato. Proprio per questo sembrano ancora più paradossali i proclami e gli atteggiamenti da puri e duri di molti rapper contemporanei, che trovano nell’iperrealismo a tratti grottesco (e in diverse occasioni eticamente inaccettabile riguardo al sessismo e alla violenza delle parole, ma questo è materiale per un altro articolo) della trap la loro apoteosi. Forse figli più del senso di colpa che dell’obbligo di mantenere un cliché.

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​