Per chi suona la musica che nasce su Internet

Society 3.0


Per chi suona la musica che nasce su Internet

Se ha ancora senso parlare di “generi” in un panorama musicale sempre più liquido e votato all’ibridazione, non c’è dubbio che uno dei più popolari e incisivi negli ultimi anni sia il cosiddetto hyperpop che parla alle nuove generazioni e riflette la vita online.

Nell’estate di quest’anno si è toccato forse il punto di massima esposizione di una tendenza sonora nata originariamente nelle camerette di giovanissimi sperimentatori elettronici e presto dilagata nel mainstream musicale, del quale rappresenta oggi uno dei cardini. È successo che Charli XCX, artista britannica trentaduenne e una delle più celebri icone dell’hyperpop, abbia definito in un suo tweet la candidata democratica alla presidenza Kamala Harris come “brat” (monella, ragazzaccia). Il nomignolo, usato con accezione positiva, echeggiava astutamente il titolo dell’ultimo, vendutissimo (ma sarebbe più corretto dire “streammato”) album della cantante, ed è diventato immediatamente virale con un’infinità di meme. Non ha portato molta fortuna a Harris, come si è visto, ma il fatto che hyperpop ed elezioni presidenziali americane si siano a un certo punto incrociati è un segnale di quanto il primo sia entrato definitivamente nel costume e nella cultura pop odierni, diventandone una delle forze trainanti. Lo dimostra anche l’ultimo cartellone di un festival storico come il californiano Coachella, un tempo tendenzialmente votato al rock e oggi letteralmente monopolizzato da nomi in qualche modo riconducibili all’ambito hyperpop.

Cos’è l’hyperpop e da dove arriva

Ma che cos’è, di preciso, l’hyperpop? Sviluppatosi nella seconda metà degli anni Dieci ed emerso definitivamente all’inizio di questo decennio (in concomitanza, particolare da non sottovalutare, con la pandemia e i vari lockdown), nasce come forma particolare di musica elettronica elaborata autonomamente da producer e artisti indipendenti, spesso con mezzi tecnologici casalinghi. Meno cupa e opprimente dell’electro che andava per la maggiore quindici o venti anni fa, è caratterizzata proprio dal mix di suoni digitali e melodie pop di facile presa. Il connubio tra suoni distorti e ipercinetici, bassi profondi e pop bubblegum, con le voci trattate in modo da renderle spesso quasi aliene e robotiche, si è dimostrato sufficientemente plastico da incorporare anche linguaggi come l’hip-hop, la trap e persino il metal. Il tutto avvolto in una estetica futuristica e futuribile, nella quale i simboli e i segnali della contemporaneità sono accentuati in modo volutamente iperrealistico. In questo senso si spiega perfettamente il nome: l’hyperpop è quasi un meta-commento sul concetto stesso di “pop”, le cui caratteristiche – semplicità, ripetitività, accessibilità immediata – vengono esagerate al punto da sembrare surreali.


Nella rapida scalata al successo del (macro) genere è stato fondamentale il lavoro dell’etichetta/collettivo P.C. Music, fondata dal musicista inglese A G Cook, e di artisti e producer come la purtroppo scomparsa SOPHIE, forse la vera pioniera dell’hyperpop. Tra gli esponenti più celebri (anche se non tutti accettano di buon grado la definizione) troviamo i 100 Gecs, Rina Sawayama, Dorian Electra, Caroline Polacheck, Arca e la citata Charli XCX.
L’ascesa del fenomeno è stata favorita anche dalla sua indissolubile connessione con Internet e le modalità di diffusione della musica in rete: piattaforme come Souncloud, Bandcamp, YouTube, TikTok sono state determinanti nel fornire quello che era contemporaneamente un veicolo di esposizione e uno spazio per sperimentare e dialogare con i fan. Ovviamente ancora più importante è stata Spotify, le cui playlist hyperpop hanno macinato record di ascolti. Del resto, musica di questo tipo si produce velocemente, c’è un ricambio continuo e gli stessi album degli artisti di punta si presentano come costanti work in progress, tendenza dimostrata anche dal fatto che dello stesso disco escono versioni nuove, extra, remixate, riregistrate e così via.

Il legame con Internet è tuttavia più profondo e ha a che fare non solo con modelli di business e strumenti di condivisione, ma anche e soprattutto con un sentire comune alle nuove generazioni. Nel suo mescolare ritornelli quasi infantili e suoni distorti e a volte ostici, l’hyperpop riflette altre dicotomie della cultura e del modo di vivere on line, così come si sono configurati nell’ultimo decennio. La dialettica tra cupezza dei tempi e il bisogno di evasione, tra connessione e isolamento, tra l’identità digitale e quella fisica. Non è certo un caso che anche dal punto di vista dell’immagine molti artisti e artiste hyperpop giochino sul contrasto tra spersonalizzazione ed esaltazione del corpo. Così come non stupisce che molti tra loro si definiscano transgender e non binari (come era la stessa SOPHIE): l’hyperpop è la musica di una generazione che sta mettendo in discussione le categorie imposte, anche e soprattutto in termini di identità sessuale.

La sua fluidità e la tendenza al rimescolamento, il suo presentarsi come un non-genere che racchiude una gran quantità di generi, si allinea perfettamente alle inclinazioni e ai bisogni di giovani cresciuti su Internet e i social media, aperti al cambiamento e predisposti alla critica dell’esistente. Il tutto filtrato dall’onnipresenza della tecnologia. Nel suo essere estremamente (hyper) pop, l’hyperpop può anche essere estremamente politico. Ed è forse questa la sua caratteristica più innovativa e interessante.

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​