La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Ma chi l’ha detto che dobbiamo fare più di una cosa alla volta? Non è solo un elogio alla lentezza, ma una necessità di fare le cose per bene e senza distrazioni.
Uno dei vantaggi principali di crescere al Sud – dell’Italia, dell’Europa e del mondo –, almeno fino a qualche anno fa, era la lentezza. La capacità dei suoi abitanti di dedicare anima e corpo a una cosa alla volta: una chiacchiera con il vicino, il ragù della domenica, la piantina di pomodoro in giardino.
Il risultato? Legami indissolubili, “Il ragù della nonna è il più buono del mondo”, una migliore comprensione della natura e del “prendersi cura” (nonché un condimento pazzesco per le frise),e un bambino libero da ogni distrazione – io – che tra le terrazze e i cortili “a basso volume” aveva imparato a studiare con la tv spenta e a mettere via il game boy quando a qualcuno andava di fare conversazione. Come per tanti altri, la favola del mio inconsapevole buddhismo “alla pugliese” si è bruscamente interrotta quando mi sono trasferito a Milano per iniziare l’Università, prima dell’hashtag “vitalenta” che qualche anno dopo avrebbe riportato in auge l’essenza della mia terra, e me di nuovo a casa.
Per integrarmi nella città dei “vorticosi pensieri” e nel mondo del lavoro delle big city, le grandi, anzi, grandissime metropoli in cui ho vissuto, ho dovuto familiarizzare con il concetto di frenesia. La capacità degli abitanti di questi apparentemente meravigliosi ecosistemi “ad altissimo volume” di dedicarsi – con più corpo che anima – a tante cose contemporaneamente, attraverso una serie di pratiche discutibili, tra cui l’arte del popolare “multitasking”. Il risultato? Un calo delle prestazioni e un deterioramento della salute mentale.
Nello studio Executive Control of Cognitive Processes in Task Switching – condotto più di 20 anni fa –, gli psicologi, Joshua Rubinstein, Jeffrey Evans e David Meyer, sottolineano come questa “tecnica”, nonostante possa sembrare un modo di lavorare estremamente efficiente, porti via più tempo per completare una singola attività e conduca a compiere più errori del normale. Soffermatevi a rifletterci un attimo, quante volte oggi avete aperto l’App di LinkedIn o Instagram mentre eravate al lavoro? O avete risposto al telefono mentre stavate scegliendo le verdure al mercato? Quanto tempo vi è costata questa distrazione? A me, tanto.
Ma il tempo non è l’unica cosa che questa usanza metropolitana ha il potere di sottrarci. Il multitasking influenza anche le nostre abilità cognitive.
Alcuni ricercatori dell’Università del Sussex hanno scoperto che le persone che tendono a fare più cose contemporaneamente, su più dispostivi elettronici, presentano una minore densità cerebrale nella corteccia cingolata anteriore – la regione del cervello responsabile per l’empatia e per il controllo cognitivo ed emotivo.
Tuttavia, nonostante questo mito sia stato più volte smentito negli ultimi anni, persiste nelle job description, nei colloqui e nella fantasia di alcuni leader che lo ritengono una qualità indispensabile per una carriera di successo. Beh, non lo è.
Come scrive Franco Cassano nel suo libro Il Pensiero Meridiano, «bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne solo la copertina».
Ma a volte, soprattutto nel mondo del lavoro, siamo costretti ad accelerare il passo ed è per questo che, qualche anno fa, ho deciso di creare un luogo “remoto” – la mia azienda – dove i suoi abitanti possono vivere a metà tra la lentezza e la frenesia. Dove possono crescere senza rinunciare a ciò che conta davvero per loro e pensare al multitasking come a un’antica leggenda.