Meno iperconnessi, più community sociali

Society 3.0


Meno iperconnessi, più community sociali

Il fondatore di Facebook cambia idea e punta sulle community, ridando alle persone il potere. E vuole modificare il modo di usare Internet.

Il fondatore di Facebook cambia idea e punta sulle community, ridando alle persone il potere. E vuole modificare il modo di usare Internet.

Il nuovo slogan lanciato da Mark Zuckerberg in un grande evento a Chicago segna una svolta epocale nella mission di Facebook: basta costruire un mondo aperto e connesso, ma bisogna dare alle persone il potere di creare comunità e rendere il mondo più unito.

Un’intuizione non così nuova se ci si pensa. Sempre Zuckerberg anni prima aveva osservato che le community non si creano, esistono già. Per propria natura le persone tendono ad aggregarsi nei gruppi con cui condividono gli stessi ideali, a partire dalla cerchia degli amici, fino a circoli culturali, associazioni ed eventi. Con l’avvento di internet, e successivamente dei social network, le distanze tra le persone si sono accorciate, i limiti geografici sono stati superati e le dimensioni delle community sono esponenzialmente aumentate.

D’altra parte che qualcosa stesse (o dovesse) cambiare era nell’aria.

Solo qualche tempo fa un’altra dichiarazione ci aveva completamente spiazzato, facendoci capire che qualcosa si stava realmente  nella cosiddetta democrazia dei social.

«The Internet is broken, Internet non funziona più». Cosi si è espresso in una sua intervista al New York Times Evan Williams, fondatore di Twitter: «Un tempo pensavo che, se avessimo dato a tutti la possibilità di esprimersi liberamente e scambiarsi idee e informazioni, il mondo sarebbe diventato automaticamente un posto migliore. Mi sbagliavo».

Da cosa nasce questa affermazione? Dalla consapevolezza che Internet premia gli estremi e i suoi strumenti diventano espressione della natura umana che non sempre è “perbene”. Se vedi un incidente mentre stai guidando, ovviamente lo osservi: e tutti, intorno a te, lo fanno. Internet interpreta un comportamento simile come il fatto che tutti vogliano vedere incidenti: e fa in modo che gli vengano forniti. Basti pensare alla diretta Facebook, che in America ha trovato una delle sue massime espressioni quando venne utilizzato per riprendere un omicidio in tempo reale.

E comunque già un paio di anni prima ne aveva parlato molto duramente anche il nostro Umberto Eco: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli…La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità».

Sicuramente un punto di vista molto severo, ma che parte però da una consapevolezza di cui dobbiamo prendere atto: è finita purtroppo l’epoca delle fortezze inespugnabili in cui la verità era custodita dai suoi sacerdoti. Oggi la verità va difesa e farlo costa fatica, gratifica molto meno: non si produce pensiero nella cultura digitale se non si accetta di stare anche al fianco di questo lato stupido della forza.  

Ecco quindi, in questo contesto, la decisione di Mark Zuckerberg, che, cambia direzione ma prosegue nella sua rotta: «Pensavo che dando alle persone la possibilità di esprimersi e di connettersi, il mondo sarebbe migliorato da sé. Per molti versi è stato davvero così. Ma la nostra società è ancora divisa. Ora credo che noi abbiamo la responsabilità di fare di più. Non basta connettere il mondo: dobbiamo fare in modo che si unisca sempre più».

Zuckerberg, insomma, invita le persone ad essere parte attiva del cambiamento partendo dalle communities, anche perché Facebook ha bisogno costantemente di utenti attivi e su questo fronte da qualche anno il colosso americano ha dei problemi. 

I dati gli danno ragione sulla validità della direzione intrapresasu oltre due miliardi di users, solo 130 milioni fanno parte di gruppi Facebook; e quindi spingere verso le communities vuol dire anche attingere a un bacino di utenza attiva interessante. Basti pensare ad un esempio di successo nato negli ultimi tempi, ovvero le Social street, che condividono proprio la mission che si propone Zuckerberg: ovvero avvicinare le persone, in questo caso particolare vicini di casa, scambiandosi idee e contenuti e soprattutto creando una relazione “concreta” rapporti di fiducia.

Anche il mondo del business possiamo trovare casi di community: un’azienda è composta da persone che condividono lo stesso posto di lavoro, anche se sicuramente con qualche difficoltà maggiore. Famoso è il caso della “mela al contrario” di Apple sui suoi computer portatili, nata dalla casuale intuizione di un dipendente, poi diventata di dominio aziendale grazie a «Can we talk?», la community interna ad Apple.

Per diverso tempo, infatti, la classica mela appariva capovolta quando il coperchio dei laptop era aperto. Insieme con altri colleghi, un dipendente inviò allora una domanda nel sistema di discussione interno di Apple per gli impiegati – che si chiama «Can we talk?» – chiedendo perché il logo di Apple dovesse apparire al contrario quando i Mac portatili erano aperti.

Inizialmente le cose restarono invariate, anche perché così era più facile riconoscere il lato d’apertura del laptop. Ma alla fine i progettisti dei Mac portatili si resero però conto, insieme con Steve Jobs, della controindicazione della soluzione scelta e così decisero di ruotare di 180 gradi il logo di Apple, in modo che apparisse dalla parte giusta quando i Mac portatili sono aperti.

Can we talk? Ne possiamo parlare? Da ora in poi sarà più facile.