Bellezza: il canone lo dettano i social
Internet, e i social in modo particolare, hanno dato a tutti noi la possibilità di mostrarci ad una platea virtualmente infinita di persone, con i potenziali vantaggi che ne conse
The Wicker Man ha compiuto 50 anni ed è stato sinistramente anticipatore di meccanismi psicologici collettivi ai quali, in quella gigantesca Summerisle globale che è Internet, la nostra contemporaneità si sta ormai abituando.
In un prato a picco su una scogliera si erge una gigantesca figura umana fatta di vimini. Intorno alla costruzione, un folto numero di uomini, donne e bambini in costumi tradizionali balla e canta con aria trasognata. Sembra una innocua festa di paese. Non fosse che all’interno dell’uomo-di-vimini è rinchiuso un uomo vero, e che gli allegri villici a un certo punto appicchino il fuoco all’inquietante totem. Mentre in sottofondo sentiamo le urla del malcapitato mescolate ai gioiosi canti della folla, la macchina da presa si alza a inquadrare il sole, meraviglioso e indifferente.
Il finale di The Wicker Man è una delle sequenze più spaventose e genuinamente malsane nella storia del cinema, pur con l’assenza pressocché totale dei trucchi splatter tipici di molto cinema dell’orrore. E quel brivido che colpì i (pochi) spettatori all’uscita del film si è riverberato lungo mezzo secolo, accompagnando la fortuna postuma di quello che è non solo un archetipo dell’horror inglese ma anche un esempio da manuale di “film di culto” (in tutti i sensi).
The Wicker Man apparve per un battito di ciglia nei cinema britannici nell’autunno del 1973, ma nel corso di questi ultimi cinquant’anni – l’anniversario verrà celebrato con una edizione deluxe in blu-ray e l’inevitabile riapparizione nelle prime visioni in forma restaurata – è assurto a uno stato mitico, influenzando diversi ambiti culturali e venendo citato più o meno direttamente in altri film, libri, fumetti, dischi, serie tv. Ultimo figlio illegittimo in rodine di tempo è Midsommar, horror chiaramente ispirato alla storia dell’”uomo di vimini”. Ne è stato fatto anche un disastroso remake con Nicholas Cage protagonista, intitolato Il prescelto, andato così male da ogni punto di vista (critico e di incassi) da far venire il sospetto che la fama di “film maledetto” non fosse così campata per aria. Meglio lasciarlo stare, il Wicker Man.
In realtà, molta della mitologia a posteriori sull’opera diretta da Robin Hardy è frutto di leggende metropolitane condite dall’immancabile tocco di umorismo nero tipicamente british. Si vociferava di bobine seppellite sotto piloni autostradali affinché nessuno potesse ritrovarle, di interventi censori della Chiesa anglicana e di quella cattolica, di carriere degli attori stroncate e di qualcuno di loro addirittura morto in circostanze misteriose. Niente di tutto ciò è vero. Anzi, per quanto riguarda uno dei protagonisti principali – Christopher Lee, monumento dell’horror inglese che interpreta Lord Summerisle, il “sindaco/sciamano” del villaggio nelle isole Ebridi in cui si svolge la vicenda – si è goduto dopo il ’73 una esistenza e una carriera ancora lunghe e fortunate. Quanto alla “scomparsa” del film, non era figlia di censure e messe all’indice bensì di banalissimi problemi di distribuzione. Ad assicurare una seconda, fulgida vita a The Wicker Man è stato il mercato sotterraneo delle VHS negli anni 80, che lo hanno reso un cult per le successive generazioni di appassionati, insieme alla splendida colonna sonora folk, ristampata per la prima volta agli inizi degli anni Zero e paradossalmente (considerando lo stile iper-britannico e tradizionale della musica) opera di un giovane compositore americano, Paul Giovanni.
La sinossi della trama è semplice, e ricalca apparentemente un luogo comune di molti thriller, soprattutto contemporanei a The Wicker Man (si pensi a titoli come Cane di paglia di Sam Peckinpah o Un tranquillo weekend di paura di John Boorman): l’arrivo di un elemento esterno in una comunità rurale, apparentemente “normale” ma che in realtà nasconde oscuri retaggi di violenza e turpitudine con i quali il povero straniero dovrà fare i conti. Nel film, l’outsider della situazione è un poliziotto mandato direttamente da Londra nella sperduta località di Summerisle per indagare sulla scomparsa di una ragazza. L’uomo, integerrimo e profondamente credente ma non esattamente dotato di acume investigativo, viene accolto sul principio con molta gentilezza dai locali, ma si accorge ben presto, nonostante la sua stolidità, che c’è qualcosa che non quadra. Tra pascoli e pub, locandiere procaci e boccali di sidro, scopre che all’interno del villaggio si aggira uno spirito oscuro il cui centro focale è proprio il rispettato Lord Summerisle/Christopher Lee. Gli allegri paesani sono in realtà seguaci di un antico culto di matrice celtica e ancestrale, che per propiziare il raccolto prevede anche sacrifici umani. Quando ne avrà la certezza, purtroppo per lui sarà troppo tardi.
Il fascino epocale del film non poggia, come si può intuire, sull’intreccio narrativo, quanto sulla messa in scena, sulla caratterizzazione dei personaggi e sul modo in cui viene presentato il conflitto tra la fede (ma anche la razionalità) del poliziotto e le pulsioni precristiane di un paganesimo rimasto incredibilmente congelato tra le pieghe della modernità. Quello che fa davvero paura negli abitanti di Summerisle non è la loro malvagità o sete di sangue, che in realtà non possiedono. Al contrario, sono proprio la loro naturalezza e la loro “innocenza” a inquietare: quello è il loro mondo, credono nei cicli naturali e se per garantirsi il raccolto è necessario quel tipo di rituale, qual è il problema? Anzi, pure il sacrificato dovrebbe esserne felice.
In questo senso, The Wicker Man è sinistramente anticipatore di meccanismi psicologici collettivi ai quali, in quella gigantesca Summerisle globale che è Internet, la nostra contemporaneità si sta ormai abituando. Culti, credenze, complottismi, “tane del coniglio” dentro le quali persone apparentemente normali fortificano le loro superstizioni proprio in virtù del loro viversi come “comunità” isolata da mondo (anche se solo virtualmente). E davanti alle quali a nulla possono gli argomenti razionali, esattamente come impotente è la fede del povero poliziotto.
Ma la forza del film ha a che fare, inevitabilmente, anche con l’ambientazione e l’epoca in cui è stato girato. Quella Gran Bretagna un po’ arcaica e un po’ anni 70 psichedelici rimane suggestiva anche dopo cinquant’anni. E non è un caso che il culto di The Wicker Man si sia saldato a sottoculture e fenomeni più recenti che da quel contesto spazio-temporale ha preso molti spunti. Ad esempio, l’hauntology, ovvero la “nostalgia per i futuri possibili”, teorizzata da intellettuali come Mark Fisher. O la moda delle cosiddette “weird walks”, diventate negli ultimi tempi un trend da Instagram. Alla base di entrambe c’è la ricerca dell’elemento dissonante, “strano e inquietante” (weird and eerie, per citare Fisher), della permanenza nel contemporaneo di qualcosa apparentemente dimenticato dalla Storia ma sorprendentemente ancora vivo. Lo si può trovare nel paesaggio, lungo un sentiero di campagna durante una camminata, nei resti archeologici, nei manufatti artistici. E sì, forse anche in un villaggio delle isole Ebridi. Per coglierlo si deve assumere, anche in un ambiente che si considera famigliare, la prospettiva di chi arriva dal di fuori. Proprio come il poliziotto di The Wicker Man che si ritrova nel mezzo di una comunità pagana in pieno Ventesimo secolo. Sperando, ovviamente, di non fare la stessa fine.