L’attivismo che fa purpose

Society 3.0


L’attivismo che fa purpose

Profitto, persone, pianeta. Sono i tre pilastri sui quali oggi si focalizzano i Civic brand. Cosa vuol dire? Un impegno costante nel perseguire l’interesse pubblico.

Il brand activism, il purpose, l’attenzione verso il ruolo politico, sociale e culturale di ciascuna azienda e marca sono leve certamente importanti ma da maneggiare con estrema cura. Come infatti rilevato di recente dall’Osservatorio Civic brands, progetto nato per iniziativa di Ipsos e del pubblicitario e direttore creativo Paolo Iabichino, «si registra un aumento delle persone che dichiarano di non credere all’impegno delle marche in ambito sociale, culturale o politico. Troppo spesso, infatti – spiega la ricerca – i consumatori e le consumatrici percepiscono le dichiarazioni di impegno da parte delle aziende solo come un modo per lavarsi la coscienza (56%, +5 punti rispetto al 2021, ndr), oppure dichiarano che in fondo l’unico interesse reale delle aziende è e rimane il profitto (51%, +7 punti rispetto al 2021, ndr)». E tutto ciò può avere pesanti impatti anche sul business stesso delle aziende: quasi la metà delle persone intervistate (47%, +3 punti rispetto al 2021) dichiara di avere addirittura smesso di comprare alcuni prodotti o servizi di marche e aziende perché deluso dal loro comportamento in ambito sociale, culturale o politico. Risulta fondamentale quindi, procedere con cautela e genuinità per non rischiare di perdere il favore dei clienti.

Parlare ad esempio di inclusività, diversità, e poi avere un consiglio di amministrazione o una prima linea del management composti solo da uomini. O trattare i temi dell’empowerment femminile salvo poi demansionare le colleghe che vanno in maternità. E, ancora, riempirsi la bocca di rispetto per l’ambiente salvo poi accorgersi, come per fortuna sta facendo tutto il sistema-moda, di essere una delle filiere più inquinanti al mondo. 

In effetti «l’attenzione verso il ruolo sociale, politico, culturale che marche e aziende devono giocare per la collettività cresce di pari passo alle aspettative nei loro confronti. Raccogliere questa richiesta e agire per il bene collettivo richiede impegno, costanza e soprattutto trasparenza e dialogo con tutti gli interlocutori, siano essi istituzionali che singole comunità di individui. Non può esistere oggi impegno da parte di marche e aziende senza un chiaro patto di fiducia con i cittadini», commenta Andrea Fagnoni, chief client officer di Ipsos

Perciò, quando si affrontano argomenti alti come sostenibilità, inclusione, diversità, tracciabilità delle filiere, condizioni di lavoro, bisogna da un lato essere consci che «i consumatori chiedono a gran voce che ci si occupi di questi temi – dice Iabichino – e mettono i loro denari sui brand e nelle aziende dove questi temi vengono valorizzati. E, si badi, non è questione di pochi, è una intera generazione che sta arrivando, il ricambio generazionale determinerà nuovi cluster e nuovi poteri di acquisto». Dall’altro lato, però, è necessario essere credibili, pertinenti e rilevanti. Altrimenti, meglio lasciare stare. 

CREDIBILI

«Bisogna avere credibilità nel sostenere determinate prese di posizione. È necessario fare una sincera riflessione sul dna della marca, sui valori fondativi dell’azienda, sull’heritage. Essere onesti da un punto di vista intellettuale, non fare le cose solo perché c’è l’hype su quel tema. Altrimenti fare un post in rosa l’8 marzo o mettere l’arcobaleno per sposare le cause lgbtq+ non ha senso. Peraltro – prosegue Iabichino – le nuove generazioni hanno una sensibilità più spiccata nei confronti delle manipolazioni pubblicitarie e comunicative, sono più attrezzate a riconoscere i goffi tentativi di washing messi in atto dalle aziende. E il web aiuta molto a disvelare i bluff». 

PERTINENTI E RILEVANTI

Poi ci sono pertinenza e rilevanza, che vanno insieme: «Essere pertinenti significa occuparsi dei temi di contesto. Se sono una azienda di prodotti di bellezza, mi muoverò in un contesto affine, per esempio di fiducia in sé stessi, contro il body shaming. Essere rilevanti – aggiunge Iabichino – vuol dire, invece, capire se i temi di cui vogliamo occuparci siano mossi solo dai consumer insight, oppure se siano invece grandi tensioni culturali che appartengono a tutta la società. Penso, ad esempio, alla campagna Plasmon che abbraccia il tema della denatalità. O a quella del Banco dell’energia per assistere le persone che non riescono a pagare le bollette».

CIVIC BRANDS

Profitto, persone, pianeta. Sono i tre pilastri sui quali oggi si focalizza quindi il Civic brand, verso un impegno che costantemente le aziende dovrebbero perseguire nell’interesse pubblico. Quello che il nuovo consumatore chiede alle aziende è quindi di uscire dal classico perimetro delle “quattro P” di Kotler (product, place, price, promotion), per rivolgere il proprio sguardo verso profit, people, planet (il profitto, le persone e il pianeta). «Bisogna cambiare il paradigma del business consumer. È il momento di trasformarlo in qualcosa di diverso: in un modello di business citizen che parla a una comunità diversa e allargata, fatta di persone – sottolinea Fagnoni di Ipsos – e, in questo senso, sia la scelta di agire in una certa direzione da parte di un brand, sia quella di non agire comporta una responsabilità e crea soddisfazione o, viceversa, malcontento nei consumatori».

I RICAVI AUMENTANO

Dall’Osservatorio Civic brands il 56% dichiara di essere attento ai comportamenti in ambito sociale, culturale o politico da parte delle aziende. E, in un periodo come quello attuale, caratterizzato dal caro vita, l’attivismo di un brand si dovrebbe tradurre in un supporto tangibile al consumo, ovvero in un aiuto reale ed economico. Il 79%, infatti, sostiene che marche e aziende dovrebbero agire principalmente per contribuire a porre un freno al continuo incremento dei prezzi. 

Qui, però, si può anche cadere in contraddizione. Poiché, come fa notare Alessandro Franceschini, presidente di Altromercato «il ruolo del cittadino è centrale. Si parla di sostenibilità, ma non si può pensare che comprare una passata di pomodoro che costa 60 centesimi sia sostenibile. Si deve ammettere che il modello di business attuale non è sostenibile e richiede un cambiamento». 

Il 66% degli intervistati, inoltre, vorrebbe che marche e aziende prendessero una posizione chiara e agissero in ambiti sociali più delicati, come i diritti civili, l’antirazzismo, le tematiche di uguaglianza di genere.  Quando poi le cose sono fatte come si deve, le aziende che testimoniano, ad esempio, una maggiore attenzione ai temi della diversity registrano nel 2022 un +21% medio nei ricavi rispetto alle concorrenti che non usano questi argomenti come leva di crescita. Il dato emerge dal Diversity brand index 2023, ricerca condotta su 1.037 persone, per misurare la capacità delle marche di sviluppare con efficacia una cultura orientata alla diversity, equity e inclusion (DE&I). Come ribadisce Francesca Vecchioni, presidente di Fondazione Diversity, “la consapevolezza verso le tematiche della DE&I è infatti in continuo aumento. Consumatrici e consumatori, anche in un mercato così affollato, distinguono le azioni e la comunicazione più coerenti e autentiche in tema di inclusione, da quelle più strumentali o imputate di diversity washing. Non basta più stampare una bandierina rainbow sul proprio packaging per essere inclusivi: su questi temi le persone a cui si vuole parlare sono spesso più competenti delle stesse aziende che li comunicano. Oggi gli standard si sono alzati di molto, ai brand è richiesta coerenza, autenticità e competenza. Non si comunica più la DE&I, si comunica con la DE&I, ed è uno strumento eccezionale solo se è autentico, l’unico modo per arrivare davvero”.

I SETTORI PIÙ INCLUSIVI

In base al Diversity brand index 2023, sulla composizione settoriale dei primi 50 brand percepiti dal mercato come più inclusivi continuano a crescere le marche dell’Apparel & Luxury goods, che arrivano al 22%. Calano invece le aziende legate al Retail, anche se con il loro 24% restano il segmento più ampio. Scendono per il secondo anno consecutivo pure i brand dell’Information technology e dei Consumer services. Stabili gli altri: i Media al 10%, Healthcare & Wellbeing e i beni di largo consumo (entrambi all’ 8%), Telco e Toys al 2%. Da segnalare l’ingresso della categoria Automotive (2%), settore finora totalmente assente nella rilevazione.

COME CAMBIA LA COMUNICAZIONE

«Beh, se fossi andato sette anni fa in Plasmon a presentare il progetto Adamo 2050 realizzato dalla agenzia Dude sulla denatalità – commenta Iabichino – probabilmente il direttore marketing mi avrebbe buttato fuori a calci. Poi ci sono progetti come quello di Mini che appoggia il Tortellante, insieme a Massimo Bottura, con un podcast dedicato a ragazzi autistici che vendono i loro tortellini. Uno potrebbe chiedersi: ma perché Mini si prende questa briga? Cosa c’entra con le auto? Eppure, sono temi di diversità e inclusione da anni dentro il dna di Mini, che già 15 anni fa ha costruito una pista di sci per disabili, con una scuola. Dentro Mini, quindi, è presente quella sensibilità, a prescindere dell’hype del momento. Di case history ce ne sono moltissime: pensiamo ad esempio a Lego che si pone come obiettivo quello di produrre tutti i suoi mattoncini in materiali biodegradabili. Questo significa rivoluzionare tutta la propria filiera, la supply chain. Uno sforzo enorme, un po’ come il sistema-moda che sta capovolgendo la sua industria perché si è reso conto di essere esageratamente inquinante e non più sostenibile». 

E come cambia il mestiere di comunicatore? «Mah, io arriverei a dire che non cambia nulla – risponde Iabichino – noi creativi siamo condannati ad avere sempre idee nuove e migliori, e non è che col purpose il mestiere diventi più facile. In termini di competenze, non vedo grandi differenze: non mi improvviso conoscitore di tematiche, e mi affido a chi ne sa più di me in tema di sostenibilità, inclusione, diversità, ecc. Più in generale, comunque, o le diseguaglianze ti danno realmente fastidio, o vivi la ingiustizia sociale come un problema di cui puoi occuparti, oppure la tua finzione e l’interessamento interessato corrono il rischio di diventare un semplice vezzo di marketing, un impegno narcisistico. Su queste tematiche si gioca il posizionamento del brand nei prossimi 10-20-30 anni. Non si possono assolutamente fare tatticismi di breve respiro».  

Milanese, laureato in Economia e commercio alla Università Cattolica del Sacro Cuore, è giornalista del quotidiano ItaliaOggi, co-fondatore di MarketingOggi, esperto di storia ed economia dei media, docente di comunicazione ed economia dei media per oltre 10 anni allo IED di Milano.