La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
In una democrazia digitale le aziende diventano persone soggette al giudizio delle comunità a cui si rivolgono. Changes ne ha parlato con Daniele Chieffi, giornalista esperto di innovazione e docente universitario.
La reputazione è il principale asset intangibile di un’azienda ed è anche l’unico che non può essere copiato. Una definizione come questa fa pensare che sia la cosa più propria di un’impresa, ma è un errore. La ragione è semplice: la reputazione è certamente unica e non replicabile, ma non appartiene alle società e ai brand perché la sua costruzione è un processo sociale che si svolge all’interno di una democrazia sempre più digitale dove tutti sono protagonisti. Changes ne ha parlato con Daniele Chieffi, giornalista esperto di innovazione e docente universitario oltre che Direttore comunicazione e PR – Dipartimento per l’Innovazione e la digitalizzazione della Presidenza del Consiglio, e autore del libro La reputazione ai tempi dell’Infosfera. Cos’è, come si costruisce, come si difende (Franco Angeli Edizioni, 2020) che parte da una rappresentazione chiara: «La reputazione non è ciò che siamo né come ci consideriamo, ma il risultato della percezione e della conseguente valutazione dei nostri comportamenti da parte di un contesto».
Il contesto non è altro che la realtà in cui viviamo e ci sono pochi dubbi sul fatto che, oggi, il digitale la governi. «Siamo tutti interconnessi e tutti sottoposti al giudizio collettivo, viviamo in un nuovo habitat che può essere definito Infosfera in cui i comportamenti, le scelte, le azioni delle persone e delle aziende sono giudicati quotidianamente» ha detto Chieffi che sottolinea come per governare questo ecosistema ci sia solo una strada: gestire le relazioni come si fa nella vita reale. Per farlo le aziende devono fare un passo in più o, forse, indietro, non ponendosi come entità astratte che guardano il mondo dall’alto, ma come persone alla pari delle altre. «Il racconto di un’azienda in questa situazione deve essere coerente perché, esattamente come accade a quello di chiunque oggi, sarà sottoposto al giudizio di conformità delle comunità a cui si espone» ha sottolineato Chieffi.
Se ciò che conta è il giudizio delle persone che abitano l’Infosfera, pensano collettivamente e condividono pubblicamente il loro parere, è legittimo porsi un tema di adeguatezza del pensiero e di educazione all’utilizzo dei tanti mezzi oggi a disposizione per esprimere un giudizio. «Il tema della consapevolezza è una criticità concreta perché ci sono strumenti che possono porre problematiche cognitive» ha detto Chieffi. «Pensiamo per esempio ai social media che non sono un luogo di approfondimento ma di rappresentazione e hanno un impatto puramente visuale: questo è un limite e non ci si può fare un’idea corretta di un’azienda guardando solo questi canali, il giudizio sarebbe solo superficiale».
Per questo incrociare le fonti e i media che un’impresa utilizza per raccontarsi è importante. «Serve un approccio olistico che tenga insieme l’intero sistema simbolico dell’azienda non ragionando più per pubblici di riferimento» ha sottolineato Chieffi.
Porsi allo stesso livello delle persone a cui ci si rivolge, considerando che saranno contattate in diverse fasi e momenti della loro vita è il vero salto di qualità reputazionale. «Sui social media si intercetta un’esigenza di comunicazione veloce, agli sportelli bancari, nelle agenzie o nei negozi se ne incontra un’altra che ha bisogno di contatto umano, nella comunicazione sui mezzi tradizionali di informazione, come per esempio una rivista, si appaga la voglia di approfondimento, ma anche il patrimonio immobiliare di un’azienda dà alle persone un messaggio sulla propria reputazione». Insomma, tutto, perfino l’abbigliamento e lo stile di vita di un capo azienda contribuisce alla costruzione della reputazione. La grande differenza rispetto al passato è che il giudizio non è più solo personale ma è diventato collettivo. «Mettere a sistema quello che gli altri mettono a sistema in una narrazione collettiva costruisce il percepito sociale di quell’azienda» ha aggiunto Chieffi. «In questo meccanismo subentra un aspetto di consapevolezza da parte delle aziende nel pensare che quando ci si presenta all’esterno lo si deve fare con una comunicazione integrata di tutti i messaggi». Il rischio da governare sono le informazioni non corrette o false che possono danneggiare un’azienda. «Una reputazione solida resiste alle fake news che si dividono in due categorie: notizie non corrette che arrivano da un’errata percezione e quelle che vengono costruite ad hoc. Queste ultime però sono veramente dei casi rari» ha detto Chieffi.
È un fatto che l’Infosfera sia governata dalla percezione delle persone e per questo le aziende devono utilizzare tutti gli elementi simbolici a loro disposizione che insieme concorrono alla costruzione del giudizio valoriale della comunità sull’impresa. «Prendiamo, per esempio, la sostenibilità ambientale che è assolutamente fondamentale oggi per la reputazione di un’impresa» ha spiegato Chieffi. «Un conto è dire a parole di voler abbracciare la sostenibilità e comunicarlo, altro è usare tutti gli elementi simbolici che possono contribuire a creare il giudizio: dalla redazione di un bilancio sostenibile ai comportamenti dei dipendenti nel rapporto con i clienti, fino alla condotta del management».
Ciò che va esposto non è pura immagine, ma la sostanza di azioni che sono l’elemento chiave per cui le persone scelgono un’azienda. «Se un’impresa si propone in modo empatico e vicino la scegli, se la senti distante non la scegli» ha semplificato Chieffi. «La chiave è la capacità di interpretare e indentificare i valori più importanti di cui le comunità sono portatrici e per questo l’ascolto dell’Infosfera è la conditio sine qua non: non si può utilizzare un approccio marketing per costruire reputazione perché la prima cosa da fare è la mappa valoriale delle persone a cui ti rivolgi».
Conoscere la mappa valoriale equivale ad avere in mano il libretto delle istruzioni per comunicare perché il ribaltamento del processo decisionale dà all’Infosfera il potere di valutare. Così il giudizio e la reputazione di un’azienda sono il frutto di una conversazione globale che si svolge sulle reti fisiche e su quelle digitali e coinvolge media, persone, opinion leaders che oggi stanno lasciando il potere agli influencers. «Una volta si pensava ai giornalisti come opinion maker perché avevano un ruolo sociale riconosciuto e una sorta di patente che veniva dalla formazione e dall’esperienza» ha detto Chieffi. «Oggi gli influencer nati in rete non hanno nessuna patente ma sono stati scelti e legittimati dal basso, dalle persone, e per questa ragione possono essere veramente influenti e in grado di incidere sulla costruzione di un brand se opportunamente governati».
La scelta e la reputazione di un brand arrivano dal basso e tengono conto di diversi fattori: il prodotto, l’idea, ma anche il ruolo, la missione, l’autorevolezza del soggetto in questione. Ognuno di questi elementi ha un peso specifico e un denominatore comune: il confronto con la società. Non è un caso che abitare nell’Infosfera abbia portato le aziende a diventare attive a livello sociale, sposando cause fortemente sentite dalla comunità. «Il social activism è un buon mezzo per posizionare in maniera forte la reputazione di un’azienda a patto che la causa sia genuina e le azioni per sostenerla siano continuative» ha aggiunto Chieffi. Nella valorizzazione degli asset intangibili di un’azienda la reputazione diventa quindi un elemento operativo che porta le aziende a fare scelte strategiche che possono essere governate in maniera integrata attraverso tre fattori: comunicazione, percezione e digitale.