La gerarchia serve ancora?

Society 3.0


La gerarchia serve ancora?

Di fronte a incertezze politiche, mercati instabili, concorrenti inediti e nuove tecnologie, come reagiscono e quale forma prendono i modelli organizzativi, e la gerarchia?

Di fronte a incertezze politiche, mercati instabili, concorrenti inediti e nuove tecnologie, come reagiscono e quale forma prendono i modelli organizzativi, e la gerarchia ?

Tra gli schemi articolati delle multinazionali e le strutture leggere delle start up, c’è un modello che oggi funziona meglio degli altri? La gerarchia serve ancora? E i network? Proprio oggi è importante farsi qualche domanda sulla struttura delle organizzazioni, quella che dà una forma alla loro gestione e ne plasma i cambiamenti, perché il livello delle instabilità che sollecitano questi cambiamenti è cresciuto vertiginosamente.

PERCHÉ CAMBIARE MODELLO

Prima non si cambiava mai. Per anni aziende, partiti, organizzazioni religiose resistevano ai cambiamenti con solidità, mantenendo quegli schemi rigidi e articolati che le rendevano robuste. E in effetti non ce n’era la necessità perché le mutazioni esterne che imponevano un cambio di forma all’interno, erano molto rare. Aziende come Ford, o multinazionali come General Motors, hanno avuto modelli durevoli e solidissimi, così come alcune realtà politiche. La Stasi, il servizio segreto della Germania Est, per quarant’anni ha conservato una un rigidissimo modello gerarchico a tre livelli – centrale, provinciale e locale – con a capo della piramide Berlino (Est), 15 capoluoghi di provincia e 217 sezioni comunali; aveva uno schema che oggi definiamo proprio ministeriale.

Incrociava linee operative (strutture di comando “a filiera”) e una presenza sul territorio fittissima, che insieme creavano un sistema di controllo capillare e totalizzante. Oggi sistemi del genere non reggerebbero più, perché non è possibile per anni fabbricare sempre la stessa automobile nera, il mondo non è più diviso in due, e gli stimoli esterni sono aumentati in numero e frequenza. Prendiamo le aziende. Ogni giorno affrontano:​

  • nuovi mercati settoriali che nascono grazie a un’innovazione tecnologica;
  • mercati geografici che si aprono o chiudono grazie a un accordo commerciale, a causa di un dazio o per motivi ambientali;
  • concorrenti che si consolidano, cambiano forma e dimensione;
  • competitor nuovi, inattesi, che spuntano da settori differenti dal proprio;
  • rischi politici che si svegliano da un lungo torpore.

ADATTAMENTO CONSAPEVOLE

Questi sono solo alcuni degli elementi che possono rendere il paesaggio più incerto, e impongono un adattamento frequente delle strutture organizzative.
Ovviamente ci interessa l’adattamento consapevole, quello che trasforma le condizioni esterne in regole e strutture imposte; che va in cerca di un modello che funzioni meglio con le condizioni nuove. La gerarchia delle organizzazioni è infatti imposta, mentre quella che si trova in natura, che fa emergere il maschio alfa in un branco o in una partita a calcetto in oratorio, nasce da un adattamento naturale.

Infatti anche i Cda, gli statuti di una piccola azienda di provincia si adattano, ma lo fanno attraverso scelte consapevoli. Regole che distribuiscono poteri differenti a persone differenti, per dare all’azienda:

  • continuità;
  •  risultati;
  • reazioni alle avversità;
  • riduzione dei conflitti

Se le condizioni di anni fa lasciavano che le aziende cambiassero le proprie regole di governo poche volte durante la loro vita, oggi l’adattamento è richiesto più spesso.

QUALI SONO LE FORMULE

Oggi, per esempio, la nascita continua di piccole imprese ha fatto nascere un modello nuovo, quello delle start up, con:

  • una struttura aperta che permette l’entrata e l’uscita di personale molto frequentemente;
  • una gerarchia leggerissima, dove spesso c’è un solo capo e tantissimi collaboratori che interagiscono liberamente;
  •  il ruolo “multiplo” del fondatore, che spesso è in scarpe da ginnastica e senza cravatta (c’è un significato gerarchico), si confonde con l’amministratore delegato, si sovrappone al capo del marketing, e qualche volta si sostituisce all’assistente. 

Si è visto poi, e lo ha confermato uno studio recente del MIT, che la gerarchia, se eliminata completamente, può indebolire la struttura, amplificare i conflitti e portare a confusione interna.

Il rischio, per le aziende grandi, è però di appiattire troppo la struttura e renderla inefficace, e per quelle piccole, una volta cresciute, di non trovarsi più un manager sopra la testa, ma un dittatore che finge solo un po’ di delegare e consultarsi con gli altri, come recita la nota frase di un imprenditore milanese “mi sono riunito e abbiamo deciso“.

NETWORK PER EVITARE L’AUTOCRAZIA

Per sfuggire alla verticalità assoluta che porterebbe all’autocrazia o all’orizzontalità che può condurre a una confusa liquefazione, è emerso un nuovo modello. Quello del network.
Non è uno schema che sostituisce la gerarchia, ma la integra. Una struttura fatta a rete, con i relativi nodi, dà oggi più solidità, e lo conferma lo studio imponente di Albert Barabasi nel libro Network Science (Cambridge University Press).
Il network garantisce l’agilità necessaria a reagire velocemente ai cambiamenti, e spesso porta le aziende a creare squadre di lavoro, che nascono, portano avanti un progetto, e si sciolgono una volta che l’hanno realizzato.
Questa “geometria variabile”, che porta i gruppi ad aggregarsi e disgregarsi continuamente, può solo integrare la gerarchia tradizionale, e non certo sostituirla. Si parla infatti di integrazione e non sostituzione, perché se si stabilizza per troppo tempo, la gerarchia genera calcificazioni, lentezze e rigidità che non sono utili nei momenti in cui le coordinate cambiano velocemente; però torna indispensabile quando servono continuità, coordinamento e capacità prendere decisioni difficili.
Il network, e così l’equilibro e il conflitto tra orizzontalità e verticalità – come sostiene lo storico Niall Ferguson nel suo recente libro “La torre e la piazza, le reti, le gerarchie e la lotta per il potere” – sono questioni che ricorrono nella storia dell’uomo.

Oggi, per esempio, si è aggiunta la rete ad amplificare la possibilità di saltare o eliminare le gerarchie: in più modi ne minaccia tutte le forme, compresa quella del sapere, tentando di cancellare la differenza tra l’esperto e il dilettante.
Ma le ragioni recenti per cui le gerarchie sono messe in discussione non provengono solo dalla tecnologia o da fattori economici. Dal ’68, di cui ricorre il cinquantesimo anniversario, i Paesi occidentali hanno volontariamente cercato di stravolgerne tutte le basi, non solo tentando di eliminare i concetti più “artificiali” di padrone, capo, leader, ma anche quelli della gerarchia più naturale, quella tra padre e figlio. Immaginiamo quindi l’ulteriore difficoltà a ristabilire un organizzazione ordinata in ambienti economici come quello italiano, dove le aziende sono per la maggior parte familiari.

In ogni caso il problema è ovunque attuale. Infatti, secondo un recente sondaggio realizzato da Deloitte su un grande numero di imprenditori americani, la costruzione delle organizzazioni del futuro è un tema centrale per quasi la totalità delle imprese, ma pochissime comprende come farlo. Pur essendo un percorso che influisce su produttività, performance finanziarie, coinvolgimento e impegno dei dipendenti, non c’è ancora una ricetta definitiva, se non un avvicinamento graduale al meglio, fatto di tentativi ed errori.

​Antonio Belloni è nato nel 1979. È Coordinatore del Centro Studi Imprese Territorio, consulente senior di direzione per Confartigianato Artser, e collabora con la casa editrice di saggistica Ayros. Scrive d'impresa e management su testate online e cartacee, ed ha pubblicato Esportare l'Italia. Virtù o necessità? (2012, Guerini Editori), Food Economy, l'Italia e le strade infinite del cibo tra società e consumi (2014, Marsilio) e Uberization, il potere globale della disintermediazione (2017, Egea).