I paradossi del mondo del lavoro: più abbiamo, meno siamo

Society 3.0


I paradossi del mondo del lavoro: più abbiamo, meno siamo

Non abbiamo mai avuto così tanti strumenti di smart working, e non siamo mai stati così poco smart.

Per osservare in modo disincantato, critico ma aperto i fenomeni emergenti nel mondo del lavoro, che per semplicità banalizzeremo nella stracitata formula New Way of Working, credo che meglio delle criticità o delle opportunità, ci possano aiutare i paradossi che viviamo quotidianamente. Ho scoperto che dentro alcuni di essi si nascondono sintomi rivelatori di diversi fenomeni, spesso annidati uno dentro l’altro come scatole cinesi. È una riflessione a cui tengo molto, e che ho già argomentato in diverse sedi (tra le quali non posso non citare l’esperimento di divulgazione video-radio “HR Paradox” e il recente contributo al testo “La trasformazione digitale nelle PMI”). Provo a riprendere la fila in modo sintetico anche qui in Changes.

Tutt’altro che smart

Il primo paradosso: non abbiamo mai avuto così tanti strumenti di smart working, e non siamo mai stati così poco smart. Gli strumenti di collaborazione “efficiente” come Teams, Meet, Webex, Zoom, o di comunicazione istantanea quali WhatsApp, Telegram, Slack, dovrebbero renderci più produttivi ed energici, e farci risparmiare tempo. Eppure, non siamo mai trovati così in tanti sull’orlo del burnout, con la sensazione di vivere dentro a un frullatore di stress.
Il fenomeno si spiega anche con quella che viene chiamata decision fatigue, l’affaticamento da scelta. Ovvero, lo stress decisionale che coinvolge il nostro cervello.
Secondo uno studio della Columbia University ci troviamo in media ogni giorno davanti a una settantina di scelte non semplici da effettuare. La causa? In buona parte, il moltiplicarsi di strumenti digitali da utilizzare, nella vita e nel lavoro.
Il mercato della formazione segue questa tendenza: negli ultimi 2 anni ho osservato, analizzato e testato un numero e una varietà di piattaforme, app e prodotti pensati per qualunque esigenza di apprendimento, manifesta o latente che fosse. Alcune pensate per le aziende, altre per il singolo utente. È l’esplosione dell’EdTech, le tecnologie educative digitali che permettono agli utenti di formarsi dove vogliono, quando vogliono.
Certo, è un’opportunità straordinaria. Solamente, come accade all’inizio di ogni innovazione, l’offerta sta vivendo un picco in cui il learner rischia di rimpinzarsi di troppe informazioni, contenuti, interazioni: è infobeso, spesso a sua insaputa.
Parti al mattino con un corso di public speaking su GoodHabitz, nel pomeriggio sei coinvolto a una sessione immersiva sulla leadership dentro Linkedin Learning, la sera sei indeciso se accedere a un corso di social media marketing su Learnn o guardarti un documentario su Netflix.

Ma chi scrive, in fondo, rimane ottimista. Sono abbastanza convinto del fatto che il fenomeno dell’iperofferta formativa produrrà nel medio-lungo periodo effetti virtuosi: una competizione che aiuterà l’innovazione, uscendo dall’asfissia dell’attenzione e concentrazione dei learner, consolidando nuovi paradigmi di formazione: personalizzata, ondemand, autonoma, fluida, mobile, e in evoluzione continua.

Timore e coraggio di cambiare

Il secondo paradosso è il seguente: i lavoratori non sono mai stati così timorosi, e allo stesso tempo così coraggiosi.
Secondo il New York Times, nel 2021 l’emozione dell’anno è il Languishing, il Languore: sotto Covid, abbiamo sperimentato paura e tristezza, e proviamo più timore a cambiare.
Chi langue è in un continuo stato di allerta che conduce a una diminuzione di prospettive. Il languishing non è una malattia, ma non consente di vivere appieno: attenua la motivazione e la capacità di concentrarsi.
In parallelo, sempre secondo il New York Times, sta emergendo un fenomeno che sembra il suo opposto: la YOLO (You Only Live Once) Economy: tantissime persone che sotto Covid hanno abbandonato lavori sicuri ma poco appaganti.
Si legge come moltissime persone, negli States e nel mondo «stanno capovolgendo le scacchiere accuratamente disposte delle loro vite». Individui che minacciano di dimettersi a meno che non si lasci loro la possibilità di lavorare dove vogliono.
Il fenomeno, emerso nei paesi anglosassoni, è stato rilevato anche nella nostra penisola. La rivista Millionarie, ad esempio, ha raccolto numerose testimonianze di italiani, ricevendo storie tra le più disparate.
Molte persone dunque languono, molte altre intraprendono. E spesso fanno entrambe le cose.

Presenza senza socializzazione

Il terzo paradosso del New Way of Working è legato al fenomeno delle videocall. Non ho mai visto così tanti uffici in cui ci si dovrebbe recare per stare insieme, e in cui ci si ritrova tutto il giorno isolati davanti allo schermo con le cuffie.
«Ragazzi, ci prendiamo un caffè?»
«Sorry, sono in videocall»
“Gente, chi viene a pranzo?»
«Dobbiamo finire la call, ne avrò ancora per un po’…»
È un problema serio. Ci stiamo abbuffando di riunioni inutili in cui persone vengono coinvolte in situazioni che spesso non conoscono nemmeno.
Qualche anno fa, inviando una mail, tante persone mettevano in cc tanti colleghi per mostrare di stare lavorando inviando, o per mostrare a tutti che «io la mail l’ho mandata». Ora la tecnologia permette di essere più invasivi: «Ti infilo un meeting nel calendario, tanto vedo che alle 18 di venerdì sera non hai impegni».
Risultato: decine di mini riunioni alla settimana, con persone che non sanno perché sono state invitate, che fanno finta di ascoltare, che malvolentieri attivano la videocamera (alcune scuse per non attivarla che ho sentito negli ultimi mesi meriterebbero un Oscar alla creatività).

In difesa dello status quo

Quarto paradosso: non ho mai visto così tanti manager e professionisti, spesso consulenti Baby Boomer e della Generazione X (compreso il sottoscritto) parlare di New Way Working, difendendo lo status quo nei fatti, con le unghie e con i denti.
«Certo, il digitale è importante, ma…»
«Certo, lo smart working è un’opzione, ma…»
«Certo, l’innovazione è fondamentale, ma…»
Come ben sappiamo, tutto ciò che in una frase viene prima di un “ma”, conta poco o nulla.
Questo è un punto dirimente. Noi quarantenni, cinquantenni e sessantenni abbiamo la precisa responsabilità di aprirci alle proposte delle persone dai 20 ai 40 anni. Il New Way of Working ha un disperato bisogno delle idee provenienti dalla New Generation of Worker.
I ragazzi riescono a fare qualcosa di incredibile con gli strumenti digitali, creano e ribaltano nuove regole, lanciano modalità d’utilizzo tutte loro.
Ho conosciuto ventenni conoscersi e frequentarsi solo online per mesi o addirittura anni, che hanno imparano a conoscersi più di altre persone, le quali si incontravano fisicamente tutti giorni.
L’ho visto davanti ai miei occhi: 3 ragazze ventenni che hanno iniziato a lavorare insieme online da 6 mesi, creando una mini agenzia di social media marketing. Si sono viste per la prima volta dal vivo, e dimostravano un affiatamento e una sintonia da sembrare 3 sorelle.

Per questo, ho imparato a diffidare dai progetti di New Way of Working in cui tra chi ci lavora, tra persone d’azienda e consulenti, non ci sia almeno un ragazzo di talento con una vera voce in capitolo.
Così come ho imparato a diffidare dai quarantenni, cinquantenni e sessantenni che si ostinano a spiegare a tutti i costi ragazzi giovani cosa sia la “vera” empatia e collaborazione sul lavoro.
Impariamo a fidarci, nei fatti, delle capacità dei nativi digitali, e arriviamo davvero a contaminare le capacità delle diverse generazioni.

La mia prima "startup" è stata una rock band in cui ho suonato per dieci anni, poi la vita mi ha portato alla cultura digitale. Ho pubblicato numerosi saggi, tra cui #Contaminati e Digital Skills, e il romanzo I sogni di Martino Sterio. Oggi sono Partner e Digital Learning Strategist in Newton, dove sviluppo percorsi di innovazione per grandi aziende, e coordinatore Master Digital per la Business School Sole24Ore. Contaminare la scrittura con la formazione mi rende felice.​