I nuovi confini del lavoro

Society 3.0


I nuovi confini del lavoro

Dallo smart working al near working, il lavoro di prossimità è una delle eredità della pandemia. L’obiettivo è continuare a fidelizzare la forza lavoro, soprattutto i giovani.

Alcune settimane fa Sundar Pichai, amministratore delegato di Google, ha annunciato che  da  settembre circa il 60% dei suoi 140 mila dipendenti  lavorerà in ufficio solo alcuni giorni alla settimana; il 20% sarà in grado di farlo trasferendosi in altre sedi aziendali sparse per il mondo e il restante 20% avrà la possibilità di presentare domanda per fare smart working in modo permanente.  

Il colosso a stelle e strisce è solo un esempio tra le tante aziende alle prese con la difficile riorganizzazione del lavoro nel post pandemia. L’obiettivo per tutte è continuare a coinvolgere e fidelizzare i lavoratori, soprattutto quelli più giovani, nel nome della produttività. E la cosa è tutt’altro che semplice anche perché
in questi ultimi 18 mesi il nostro rapporto con il lavoro e con il tempo è indiscutibilmente mutato. Ci siamo resi conto che le ore dedicate alla nostra professione erano decisamente sproporzionate rispetto a quelle riservate a noi stessi o e alla nostra famiglia. E ora il classico orario 9/17 ci sta stretto.
Basti dire che dall’parte dell’Atlantico la cosiddetta Yolo Economy (You Only Live One, ovvero: si vive una volta sola), è già una realtà. Si tratta di una nuova tendenza fondata sul desiderio delle nuove generazioni di staccarsi dal lavoro come è tradizionalmente inteso per cambiare.
Il fenomeno oggi vede negli States migliaia di giovani pronti a rischiare tutto pur di cambiare vita. In molti stanno abbandonando lavori stabili e comodi per avviare una nuova attività o trasformare una passione in un lavoro a tempo pieno. Altri, invece, di tornare in ufficio non ci pensano proprio e sono alla ricerca di nuove modalità di lavoro. Un trend che le aziende non possono ignorare. Anche in Italia dove la Yolo Economy potrebbe presto atterrare. Da qui l’esigenza di trovare soluzioni di lavoro “ibride”, capaci di soddisfare tutta la popolazione aziendale. Non esiste una ricetta universale, ogni impresa deciderà in relazione alle specificità delle singole famiglie professionali, in alcuni casi addirittura sulla base di una valutazione delle mansioni e delle responsabilità del singolo dipendente.

Socialità in primo piano

Del resto «La digitalizzazione del lavoro consente sulla carta di trovare soluzioni molto interessanti per migliorare il work life balance», afferma Lorenzo Cavalieri, partner della società di consulenza Sparring. 

Ma nel ripensare nuovi spazi e tempi di lavoro vanno tenute in considerazione alcuni aspetti importanti che il lockdown ci ha lasciato in eredità. «Occorre, infatti, considerare alcuni processi “deboli”, difficili da individuare a prima vista, che portano a riconsiderare l’importanza del tradizionale lavoro in ufficio. Penso per esempio al ruolo fondamentale dell'”apprendimento passivo”. Molti di noi hanno imparato più dall’osservazione e dall’imitazione dei comportamenti altrui nell’ambiente di lavoro di quanto abbiano appreso da un corso o da un master, online o offline. Se vedo il mio capo 3 volte al mese come faccio a “rubargli il mestiere”?».

Un altro aspetto difficile da intercettare ma che le aziende terranno in considerazione è lo sviluppo delle soft skills relazionali. Lavorare da remoto significa spesso lavorare da soli da casa propria. «Portare avanti questo scenario per anni non può non produrre conseguenze sulle nostre modalità di relazione con gli altri. Il lavoro tradizionale ci imponeva uno stare insieme spesso stressante e fastidioso, ma anche fondamentale per lo sviluppo della nostra maturità professionale», osserva Cavalieri. «Ovviamente non esistono solo gli estremi “lavoro in sede” o “lavoro da solo a casa”. La sfida dei prossimi anni sarà costruire ulteriori spazi di socialità, diversi dall’ufficio. Chissà che presto molti team di aziende strutturate non si ritrovino a lavorare un paio di giorni alla settimana “nei garage”, come autentici startupper della prima ora». 
O in moderni coworking, piuttosto che qualsiasi altro luogo pubblico purché minimamente strutturato.

Dallo smart working al near working

E infatti si inizia a parlare di near working, ovvero di uno spazio e di un tempo lavorativo a metà tra il domicilio e la sede aziendale in modo da poter essere vicini alle esigenze famigliari senza subire troppo stress potendo al contempo lavorare in sicurezza ed efficienza. Tanto che secondo una ricerca del Politecnico di Milano nei prossimi anni assisteremo a un esodo dalle aree centrali della città, le cosiddette city. 

Cambiano insomma la geografia, lo spazio e il tempo del lavoro. Questo non vuol dire però che metteremo definitivamente in naftalina il classico orario 9/17, anche se già non è più un riferimento per molti, soprattutto nel mondo del lavoro autonomo.
«In un paese come l’Italia dove circa 4 lavoratori su 5 sono dipendenti, l’orario 9-17 probabilmente continuerà a essere un punto di riferimento contrattuale (a cui ovviamente derogare nei mille modi previsti dalla prassi e dalle norme)», spiega Cavalieri. «E poi in un’economia che vive di interconnessioni continue tra funzioni, reparti, aziende, l’esistenza di un orizzonte temporale “di sistema” aiuta nell’organizzazione di un meeting, ma pure di un aperitivo. Anche per le singole persone vale questo principio: massima libertà, ma l’esistenza di uno standard sistemico di orario di lavoro ci dà equilibrio e sicurezze».

Manca il cambio culturale

Ed è anche per questo che ci si interroga se in Italia siamo davvero pronti ad accogliere tutta questa flessibilità. La risposta che oggi possiamo dare è “ni” visto il permanere, in tanti settori e per tante famiglie professionali, di numerose barriere organizzative alla diffusione di autentico lavoro flessibile. 

Questo secondo Cavalieri accade perché il presupposto del lavoro flessibile è la possibilità di lavorare in autonomia, su progetti, sulla base di obiettivi misurabili. Condizioni che in alcuni contesti ancora non esistono.

E poi c’è un tema importante di mindset, di approccio culturale. «Per interpretare al meglio il lavoro flessibile non si può a​vere una mentalità novecentesca», osserva Cavalieri.
E questo vale sia per le aziende sia per i lavoratori. «Non si può lavorare da casa su un progetto e fermarsi per lo stesso mal di gola che ci impedirebbe di metterci in treno e andare in ufficio, oppure rifiutare di partecipare a una riunione che potrebbe terminare oltre le 18. E’ importante che ci siano dei limiti che impediscono al “lavoro flessibile” di diventare “lavoro onnipresente”, ma è altrettanto importante ricordare che tante regole, scritte e non scritte, ancora vigenti sono nate per luoghi di lavoro (fabbriche e uffici) che avevano una ​matrice fordista. Pensare di conservarli in un’era geologica diversa sarebbe assurdo. 

Come ha osservato Carla Hall, responsabile Hr e workspace services di Fujitsu sulle pagine del Financial Times: «Il lavoro flessibile si fonda sulla fiducia, che però deve essere bidirezionale e sono i manager che devono dare il buon esempio dimostrando per primi che le persone possono e devono stabilire i propri confini». Il tutto per coniugare al meglio produttività e benessere dei collaboratori.

La rivoluzione è in corso, ma per fare il vero cambio di passo le aziende devono capire bene come desiderano che il lavoro entri nella vita dei loro dipendenti e come la vita dei dipendenti entri nel lavoro.  E questo richiederà tempo.

Ho lavorato per 20 anni nelle redazioni di riviste economiche (Gente Money, Panorama Economy) e digitali (News 3.0). Dal 2015 sono freelance. I temi che riguardano il lavoro e il management sono rimasti la mia passione, anche ora che scrivo per l’Italia dal Mozambico. ​​​