Sopravvivere all’informazione
Persino gli esseri unicellulari come l’ameba o una muffa, nel loro piccolo, sono attrezzati per esplorare l’ambiente, fiutarne i pericoli e poi scambiarsi informazioni. Figuria
Viviamo in una società dove l’idea di carriera è in continua evoluzione, dove i ragazzi intraprendono corsi di studio che non sempre corrispondono a quello che faranno di mestiere. È cambiato tutto?
«Ieri ho finito di lavorare alle tre di notte. Sono distrutto».
«Fatti coraggio, l’abbiamo fatta tutti la gavetta!».
Questa è una conversazione realmente avvenuta più di una volta nella mia vita e nella vostra, ne sono sicuro. Come sono sicuro che, negli ultimi anni, vi sarete chiesti: «Ma ha ancora senso fare la gavetta?». Del resto, sarebbe impossibile non porsi questa domanda nel mondo in cui viviamo oggi, dove i giovani all’inizio della loro carriera e gli imprenditori sembrano essere gli inconsapevoli protagonisti di uno sceneggiato napoletano scritto male, in cui si alternano solo due battute: «I giovani non hanno più voglia di fare la gavetta» e «gli imprenditori vogliono solo sfruttarti».
Se potessi aggiungere una voce narrante alla sceneggiatura – la mia – le farei dire che è giunto il momento di sfatare alcuni miti e riflettere sul concetto di gavetta nel contesto attuale poiché, come scriveva Heiddeger in Holderlin e l’essenza della poesia, «le parole sono il luogo che rende possibile la realtà stessa del mondo». Per questo, in una società dove l’idea di carriera è in continua evoluzione, dove i ragazzi intraprendono corsi di studio che non sempre corrispondono a quello che faranno “di mestiere” e viceversa; dove si lavora guidati da valori e ideali, alla ricerca di una realizzazione personale lontana dalle tradizionali aspettative della nostra società, il termine gavetta – il recipiente in cui i militari conservano il rancio, diventato poi la metafora dei momenti difficili e dei sacrifici fatti per imparare una professione – è da considerare obsoleto.
Dunque, per rispondere alla nostra domanda: sì, «fare la gavetta» ha ancora senso, ma solo se iniziamo ad attribuirle un significato diverso rispetto al passato e, perché no, un nome diverso. In armonia con i cambiamenti avvenuti nelle aziende negli ultimi anni, come la crescente attenzione ai principi ESG e alla cultura aziendale, questo processo dovrebbe rientrare in quella che, oggi, prende il nome di «formazione continua». Una pratica comune negli ambienti di lavoro contemporanei, che coinvolge stagisti, manager e CEO in piani di crescita condivisi più equi e collaborativi come.
Il reverse mentoring nasce negli anni Novanta quando Jack Welch, CEO di General Electrics, chiese a 500 dei suoi top manager di trovare giovani risorse che potessero spiegare loro come usare internet. Voleva che i suoi dipendenti più senior padroneggiassero le nuove tecnologie che stavano rivoluzionando la vita privata e professionale delle persone.
Oggi, nelle aziende convivono quattro generazioni diverse – Boomer, Generation X, Millennial e Generazione Z – con storie e competenze differenti. I giovani appartenenti alla Generazione Z, ad esempio, sono spesso plurilaureati e hanno dimestichezza con le nuove tecnologie. I baby boomer, con più anni di esperienza, hanno maggiori capacità di leadership e di gestione. Con il reverse mentoring, possono contaminarsi a vicenda e contribuire alla crescita dell’organizzazione di cui fanno parte.
Una delle prime realtà a capirlo è stata Pershing, un’azienda americana specializzata in consulenza finanziaria. Attraverso l’implementazione di questo tipo di tutoraggio, è riuscita ad attrarre nuovi talenti della generazione Millennial, meno interessata al settore finanziario, e a registrare un tasso di retention del 97%.
Dunque, le attività di formazione continua aiutano le imprese a risolvere anche altri problemi che caratterizzano il mondo del lavoro moderno, come il fenomeno della Great Resignation. Seguendo l’esempio di Pershing, anche nella mia azienda abbiamo deciso di introdurre attività simili. Ogni mese, facciamo una chiamata dove, a turno, i nostri dipendenti senior e junior tengono una lezione su un argomento di loro competenza. Non importa se è la loro prima esperienza lavorativa. Se hanno un canale YouTube e vogliono parlarci di come crescere sulla piattaforma, noi li ascoltiamo e prendiamo appunti. Credetemi, funziona!
Per concludere quel copione scritto male, alla voce narrante – sempre io – farei dire che se nei dibattiti sulla gavetta si riuscisse a tenere conto della complessità del mondo moderno, i giovani e gli imprenditori potrebbero vivere per sempre felici e contenti. In alternativa, se volessimo riscrivere un’altra sceneggiatura, quella di Karate Kid – in cui il motto «metti la cera, togli la cera» non è altro che un’altra metafora di questa tradizione anacronistica – potremmo immaginare Daniel LaRusso insegnare al Maestro Kesuke ad andare in bicicletta mentre lui gli impartisce lezioni di arti marziali. Insomma, integrare nel copione un fantastico esempio di reverse mentoring (o quasi).