Sopravvivere all’informazione
Persino gli esseri unicellulari come l’ameba o una muffa, nel loro piccolo, sono attrezzati per esplorare l’ambiente, fiutarne i pericoli e poi scambiarsi informazioni. Figuria
Se desiderate pensare alla questione ambientale con un approccio finalmente ottimista, è uscito un libro che fa per voi: Not the end of the world di Hannah Ritchie.
Not the end of the world di Hannah Ritchie, ricercatrice all’Università di Oxford all’interno del Programme for Global Develolpment ed editor di Our World in data, progetto di raccolta e condivisione dati su una molteplicità di indicatori statistici. Era dai tempi di Factfulness di Hans Rosling che aspettavo un saggio capace di una narrazione così potente. E non è un caso che Ritchie citi più di una volta Rosling come mentore e fonte di ispirazione.
Not the end of the world ha in sé la forza di un titolo felice. Non è la fine del mondo, come possiamo essere la prima generazione a costruire un pianeta sostenibile. Sono 300 pagine godibili e però dense di numeri perché non si può parlare di sostenibilità senza una piena consapevolezza dei dati. Il saggio di Ritchie si distingue dai tanti altri e dalla mole di contenuti prodotta sul tema per un approccio finalmente positivo, non nel senso morale di sguardo ingenuo sul mondo ma di operatività spiccia che risponde alla domanda: «Posto che il problema è serissimo, noi cosa possiamo fare?». Il riferimento a contrario, in alcune pagine esplicitato, è al catastrofismo scuro di Vaclav Smil ma anche alla comunicazione apocalittica di un ambientalismo auto-lesionista.
Ritchie percorre i problemi della sostenibilità (ne individua 7) con un filo rosso salutare: parlare dei dati, in primis, e di quello che possiamo fare per migliorare le tendenze. L’inquinamento dell’aria, il clima, la deforestazione, il cibo, la biodiversità, la plastica e il sovrasfruttamento dei mari per la pesca. Onore e gloria ad Hannah Ritchie che mi ha fatto chiudere le pagine del suo libro con un moto di speranza e gli occhi della tigre. E sapete che c’è? Ce n’è un gran bisogno.
Perché tra la retorica della casa che brucia senza che abbiamo più tempo e il racconto di un’opportunità da cogliere, scelgo la seconda strada. E non è wishful thinking, come Ritchie spiega nel saggio: sono i dati stessi a fornirci, nel preciso momento in cui comprendiamo la gravità di un problema, il respiro del progresso di lungo periodo e degli strumenti che abbiamo per migliorare la situazione.
Ed è la visione intricata della complessità a fornirci un secondo motivo di speranza: la logica dei compartimenti stagni e del pensiero binario non porta da nessuna parte. I 7 problemi elencati sono interconnessi in un sistema, il che significa che non esiste un’unica soluzione ma, soprattutto, che ogni soluzione utile può servire a risolvere più di uno tra essi. Provate a cambiare il modo in cui si produce energia e otterrete un beneficio sul clima e sul modo in cui ci procuriamo cibo, riducendo l’impatto sulla biodiversità.
Intervenite sulla catena di produzione e distribuzione del cibo e otterrete effetti a cascata sul consumo energetico, sulle emissioni e sull’inquinamento dell’aria. Non c’è il proiettile d’argento ma ci sono tanti strumenti concreti per agire. Ritchie inizia il libro ricordando una caratteristica fondamentale del concetto di sostenibilità: bisogna stare attenti alle due metà.
Sostenibilità significa infatti pensare al benessere delle generazioni che verranno e la nostra mente coglie immediatamente l’importanza di questo aspetto. Ma sostenibilità significa anche garantire il benessere delle persone che ci sono ora.
Le due metà sono entrambe cruciali e Ritchie usa la definizione completa per ricordarci un fatto semplice: l’uomo produce impatti non sostenibili sul pianeta con le sue attività ma questo avveniva anche migliaia e centinaia di migliaia di anni fa, quando le persone sulla Terra morivano di stenti e Sapiens non era in grado di garantire risorse sufficienti per sé e la sua specie. Idealizzare un passato che non esiste rischia di farci perdere di vista gli enormi progressi che abbiamo compiuto e continuiamo a compiere. E fondamentalmente ci allontana da un punto di fuga che cambierebbe radicalmente la prospettiva della nostra visione futura: e se invece di rappresentare le ultime generazioni di homo sul pianeta, fossimo la prima capace di costruire un mondo finalmente sostenibile?