A scuola di sesso e amore

Society 3.0


A scuola di sesso e amore

Per gli studenti serve un’educazione all’affettività: ma chi forma i docenti? Changes ne ha parlato con Celeste Costantino, Vicepresidente della Fondazione Una Nessuna Centomila, che ci spiega perché contrastare i pregiudizi è la chiave contro la violenza di genere.

In Italia, a differenza di molti Paesi europei,l’educazione all’affettività non è obbligatoria. Tuttora sono molte le perplessità e i timori che riguardano questo tipo di insegnamento, al punto che ad aprile 2025 è stato presentato un disegno di legge che prescrive l’obbligo per le scuole di chiedere ai genitori il consenso per offrire a bambini e ragazzi corsi sull’educazione sessuale e affettiva. Al di là del contenuto, però, per le scuole italiane si pone un problema preliminare: dove trovare le figure adatte a insegnare questi temi? Ne parliamo con Celeste Costantino, vicepresidente della Fondazione Una Nessuna Centomila, che ad aprile ha presentato un progetto in collaborazione con l’università Milano Bicocca sulla formazione dei docenti di educazione all’effettività.

Che competenze sono richieste a chi deve educare all’affettività? Non sono le stesse già possedute?
No, è necessaria una formazione multidisciplinare, che va a toccare più sfere di competenze: psicologia, pedagogia, educazione civica e sessuale, più la fondamentale conoscenza dei dispositivi digitali e dei contenuti che veicolano. Ma in Italia, dove l’educazione all’affettività non è ancora obbligatoria, mancanofigure che racchiudano questa pluralità di conoscenze. Per questo noi abbiamo esaminato le esperienze di alcuni Stati dove invece la formazione degli insegnanti si fa da tempo, come Francia, Spagna e Svezia, con l’obiettivo di fornire un modello da seguire.

Il recente progetto di legge prevede che nelle scuole elementari il contenuto delle attività di formazione dovrà limitarsi ad affrontare il tema dal punto di vista biologico e riproduttivo. Lei ritiene invece che sia fondamentale iniziare da subito ad affrontare altri temi come gli stereotipi di genere?
Sì, un intervento precoce è essenziale per prevenire la violenza di genere ma anche per il rispetto della diversità. Andando nelle scuole, abbiamo riscontrato come alcuni stereotipi si manifestino già dalla prima infanzia perché la cultura patriarcale è difficile da decostruire: si va dalla collocazione di colore, in rosa e azzurro, per i neonati, a caratteristiche automatiche assegnate a maschi e femmine: se i primi piangono sono femminucce; se le seconde sono vivaci, sono maschiacci. Certi lavori sono da maschi: altri da femmine e via dicendo.

Cosa c’entra questo con la violenza di genere?
Quelli che nell’infanzia sono preconcetti, nel periodo dello sviluppo diventano giudizi sulla subalternità delle donne, che rafforzano il gender gap. Per esempio, l’idea che la dimensione di cura, dei figli o dei parenti, sia “naturalmente” sulle spalle delle donne e che per essa sia naturale rinunciare all’indipendenza economica crea uno squilibrio di potere nella coppia da cui nasce la violenza, fisica ed economica. Non è sempre un meccanismo lucido, bensì subdolo perché sedimentato inconsapevolmente. Ciò premesso, concordiamo sull’idea che età diverse richiedano percorsi didattici e formativi diversi. Ma a monte gli insegnanti devono essere adeguatamente preparati, come avviene in Francia o Germania dagli anni ’70, e poi aggiornati man mano che la tecnologia cambia. Prima, insomma, dobbiamo formare gli insegnanti e poi declinare l’educazione per fasce di età: nella scuola d’infanzia e primaria si prenderanno di mira gli stereotipi di genere: più tardi, si affrontano la dimensione sessuale, la conoscenza del proprio corpo, l’educazione emotiva a ricevere un rifiuto, il diritto di negare il proprio consenso e via dicendo. Agire precocemente è necessario: i dati ci dicono che l’uso della pornografia online è molto aumentato tra i 10 e 13 anni e che le immagini consumate sono sempre più violente. E dobbiamo chiederci quanto condizionerà un ragazzo o una ragazza scoprire la sessualità tramite modelli brutali e degradanti.

In cosa consiste il progetto che avete presentato con l’università Bicocca?
Abbiamo commissionato all’accademia, quindi a un soggetto apolitico, una ricerca sul tipo di formazione che negli altri Paesi europei viene prevista per gli insegnanti di educazione all’affettività. La seconda parte della ricerca, su cosa si potrebbe fare in Italia, cioè su quale iter universitario si potrebbe prevedere ad hoc, dovrebbe essere presentata nel mese di ottobre. Speriamo che poi questa modellizzazione possa essere fatta propria dalle istituzioni.

Dal 1975 sono stati presentati 37 progetti di legge per promuovere l’educazione affettiva ma tuttora una normativa chiara che ne renda obbligatoria l’attuazione. Lei pensa che questo sia il momento buono?
Premetto che sono stata una deputata e che nel 2013 ho presentato una proposta di legge, archiviata con la fine della Legislatura, che riprendeva la Convenzione di Istanbul, firmata dal Consiglio d’Europa nel 2011, che prevede l’educazione affettiva, sessuale e sentimentale come strumento fondamentale per prevenire la violenza contro le donne e la violenza domestica. Ciò detto, rispetto al 2013, quando in tanti erano impauriti dall’introduzione a scuola di discorsi legati alla sessualità, ora avviene il contrario: ormai sono i genitori che ci chiedono aiuto per educare i loro figli, che vedono smarriti. Va considerato che negli ultimi 12 anni sono successe tante cose che hanno smosso l’opinione pubblica: il Covid e l’isolamento dei ragazzi, i tanti femminicidi, tra cui l’uccisione di Giulia Cecchettin, lo stupro di gruppo a Palermo a opera di minori e di recente anche la serie tv Adolescence spingono i genitori a cercare strumenti nuovi per capire i propri figli. Per un adulto risulta difficile accettare l’idea che la realtà virtuale sia “reale”, come lo è per i ragazzi, o che la condivisione di momenti privati sia una pratica accettabile. Il nostro progetto di formazione è una risposta concreta alle richieste di aiuto dei genitori.

Crediti foto: Christopher Beloch/Unplash

Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​