Il benessere mentale è individuale o collettivo?
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Da nice-to-have la sostenibilità è diventata un must-have e non si può non metterla al centro delle proprie strategie. Ma i board in generale non sono ancora pronti.
C’è uno spettro che si aggira per i board delle imprese di tutto il mondo: lo spettro della sostenibilità. Da nice-to-have la sostenibilità è diventata un must-have e non si può non metterla al centro delle proprie strategie. Ma i board in generale non sono ancora pronti e stanno cercando di correre ai ripari per colmare lo skill shortage sui temi di sostenibilità.
Intendiamoci, di competenze in giro ce ne sono a bizzeffe, di altissimo livello e non certo da oggi. E soprattutto fra le grandi aziende c’è chi su questi temi lavora da tempo. Ma qui il punto è un altro: la competenza sulla sostenibilità deve diventare un elemento strutturale e, per giunta, qualificante dei board. Di tutti i board, non solo nelle aziende più grandi o quotate. Lo chiedono gli investitori, i clienti, i partner commerciali, le filiere, i consumatori, insomma tutti.
I risultati di una recente indagine effettuata da PwC a livello globale su oltre 500 rappresentanti delle C-Suite, cioè di manager di livello executive, lo hanno espresso molto chiaramente: sono gli stessi manager a ritenere che i temi di sostenibilità e segnatamente i rischi legati ai fattori Esg (ambientali, sociali e di governance) non siano ben compresi dai rispettivi board. Su temi fondamentali di sostenibilità, cioè, come possono essere il clima, la diversità in azienda o il rispetto e la tutela dei diritti umani, i board dimostrano di avere la percezione della rilevanza che essi hanno in chiave strategica. Ma sono a corto delle competenze adeguate per poter essere efficaci nelle loro decisioni al riguardo. Anche perché il tempo che dedicano a discutere di questi temi nelle loro riunioni è generalmente ridotto. E di solito si guarda, come possibile soluzione, a un generale “svecchiamento” e a un maggior grado di diversità nei board: evidentemente si ritiene che i giovani e le donne siano in grado più di altri di far fare il salto in avanti urgentemente necessario. È all’interno delle aziende stesse che si avverte dunque l’esigenza forte di far entrare pesantemente in circolo, ai massimi livelli, solide competenze di sostenibilità. Addirittura secondo una ricerca ancora di PwC sono solo un quarto i consiglieri di amministrazione che, auto-valutandosi, dichiarano di possedere un livello di comprensione elevato delle istanze Esg.
Abbastanza impietosa è anche la fotografia scattata dal report Sustainable Leadership in Europe, che ha preso in considerazione l’opinione di oltre 1.500 manager di sei diversi Paesi europei (Danimarca, Francia, Germania, Polonia, Spagna, oltre all’Italia). Anche in questo caso è risultato evidente come vi sia ormai consapevolezza diffusa del fatto che la sostenibilità in generale è un tema centrale: quasi il 60% degli intervistati la considerano molto o estremamente importante, solo per l’8% lo è poco o per nulla. Le cose però cambiano e in qualche caso di parecchio quando si entra nei dettagli di quali sono i comportamenti dei manageri, i loro valori e le loro skills. Sulla conoscenza di istanze fondamentali di sostenibilità, ad esempio, si va dal 63% (diritti umani) al 31% (direttiva europea sulla rendicontazione non finanziaria); solo un manager su due che dichiara di avere familiarità con l’Accordo di Parigi, architrave delle politiche e degli obiettivi climatici mondiali dal 2015, e sono meno ancora quelli che conoscono bene il Green Deal dell’Unione europea, i principi delle B Corp, il concetto di matrice di materialità. Non va bene neppure per quanto riguarda le soft skills, che secondo alcune ricerche stanno diventando sempre più fondamentali (ad esempio l’empatia) per il successo di chi ha funzioni di leadership: su analisi e comprensione del contesto, ad esempio, oltre la metà si posiziona sul livello medio, o sotto la media, o scarso.
Complementare alla questione delle competenze c’è poi quella, una volta individuate o comunque acquisite, di come inquadrarle non solo a livello di board ma più in generale nella vita dell’azienda: come e a che livello presidiare la sostenibilità, come farla entrare nei flussi decisionali. Grazie all’introduzione anni fa anche in Italia, in recepimento di una direttiva europea, della già citata rendicontazione non finanziaria obbligatoria per le imprese maggiori (obbligo che nei prossimi anni verrà esteso anche alle Pmi), nel tempo si è costituita una base di dati importante su cui indagare per cercare di capire come le aziende si stanno muovendo in quest’ambito. Dall’ultima edizione dell’Osservatorio Nazionale sulla Rendicontazione Non Finanziaria è emerso ad esempio che, rispetto al precedente rapporto, è cresciuto dal 39% al 47% la quota del campione (oltre 200 aziende) che affida la supervisione delle tematiche di sostenibilità a un Comitato interno al CdA. Anche se solo nel 10% dei casi (in salita dal 6%) è stato costituito uno specifico Comitato di Sostenibilità.
Cosa ruota intorno al fatto che un board, e quindi un’azienda, siano riconosciuti come qualificati e autorevoli sui temi della sostenibilità? Diverse cose. Avere un tale riconoscimento sul mercato, ad esempio, diventa quasi indispensabile, se già non oggi sicuramente in futuro, per attrarre le nuove leve di collaboratori. Specie quei giovani che considerano ormai una conditio sine qua non il fatto che l’azienda in cui lavorano sia autenticamente impegnata, e ovviamente competente, su questi fronti. Al riguardo, secondo l’indagine Navigator di HSBC che ha interpellato oltre duemila business leader a livello globale, oltre un quarto di essi (27%) indicano nella sostenibilità un fattore cruciale per l’attrazione dei migliori talenti.
Le società di ricerca e selezione del personale ovviamente non stanno a guardare. Anzi, seguono il trend da molto vicino. I dati di un recente report di Robert Walters sul Regno Unito dicono che le offerte di lavoro CSR-related sono aumentate del 74% rispetto al 2020. In particolare, le assunzioni nei ruoli aziendali apicali, sul totale di quelle CSR-related, hanno fatto boom: nel 2019 erano il 7% del totale, nel 2021 sono arrivate a rappresentare il 28%.
Da parte loro le business school ai quattro angoli del pianeta, invece, da sempre vera e propria “fabbrica” della classe dirigente, non potevano che iniziare a sfornare proposte formative sempre più corpose ed articolate sui temi di sostenibilità per provare a rispondere alla crescente ondata di richieste. Senza dimenticare che le scuole di formazione manageriale hanno cominciato anch’esse ad essere valutate nella prospettiva dell’impatto positivo che riescono a produrre con la loro attività: è questo l’obiettivo del Positive Impact Rating for Business Schools, un’iniziativa (fra i sostenitori figurano fra gli altri Aiesec, Oikos International, Oxfam, Wwf) che ha preso a chiedere a chi le frequenta, cioè agli studenti, un giudizio sulla capacità effettiva delle scuole di impattare positivamente la società. Fra le dimensioni che vengono valutate c’è anche il grado in cui i temi di sostenibilità sono presenti nei programmi formativi e se tali programmi aiutano effettivamente a diventare i leader sostenibili di cui nel futuro ci sarà sempre più bisogno.
Alla fine ogni azienda può e in un certo senso deve provare a dare al problema la sua risposta. È il caso di BBVA, prima grande banca al mondo ad aver introdotto per tutti i suoi 125mila dipendenti programmi di formazione obbligatoria sulla sostenibilità. Mentre i senior executive, coi loro team, di Mapfre Asset Management sono per così dire tornati sui banchi di scuola per conseguire la certificazione Esg della Federazione europea degli Analisti finanziari. La casistica è ampia. E in rapida crescita. Tutti, insomma, paiono aver capito che bisogna muoversi e bisogna farlo in fretta.