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La sostenibilità ormai è mainstream, non solo in finanza, ed è al centro di iniziative regolamentari e normative ai quattro angoli del pianeta. Come orientarsi.
L’autorevole testata britannica Responsible Investor, specializzata sugli investimenti responsabili, ha lanciato di recente la proposta dei Principi per i Principi Responsabili (P4RP l’acronimo). Ma era un pesce d’aprile. Simpatico, ben fatto e soprattutto particolarmente azzeccato. Perché davvero c’è da perdersi, ormai, nella giungla dei principi, criteri, standard, metriche, modelli di valutazione, codici, linee guida, e chi più ne ha più ne metta, sul tema dell’integrazione della sostenibilità nell’agire d’impresa e nel processo d’investimento passando attraverso la sua rendicontazione.
Il tema è caldissimo perché ormai la sostenibilità è mainstream, non solo in finanza, ed è al centro di iniziative regolamentari e normative ai quattro angoli del pianeta. Finora, nell’ambito di quelle che, con un termine che prova a tener dentro tutto, possiamo chiamare le metriche della sostenibilità, a prevalere sono state le soluzioni che si sono guadagnate credibilità e autorevolezza sul campo. Solo per fare qualche esempio , è il caso degli standard GRI (Global Reporting Initiative) e SASB (Sustainable Accounting Standard Board), o delle raccomandazioni della TCFD (Task Force on Climate-Related Financial Disclosure). Tutto ciò non è di per sé negativo, sia chiaro. Ma evidentemente non basta più. Anche perché, nonostante la sempre più ampia e probabilmente in eccesso disponibilità di soluzioni (anche The Economist l’ha evidenziata), o forse proprio per questo, è in aumento il numero di chi, per esempio nel settore finanziario nel campo delle metriche ESG (ambientali, sociali e di governance) – in Europa voci autorevoli chiedono una regolamentazione dei fornitori di dati e rating ESG -, decide alla fine di fare da sé sviluppando metodologie proprietarie. Come dire: ognuno per la sua strada, ognuno garantisce per sé.
L’era delle metriche nate e cresciute con processi che, semplificando un po’, si possono definire bottom-up sembra dunque destinata a chiudersi e forse anche rapidamente. Stiamo entrando nell’era delle metriche per così dire top-down, che qualcuno cioè si prende la briga e la responsabilità di definire, o quanto meno di selezionare o consolidare a partire da quelle esistenti, per far sì che vengano adottate su vastissima scala. Un po’ quello che è successo con gli SDGs (gli Obiettivi di Sviluppo sostenibile) delle Nazioni Unite, che appena lanciati a settembre 2015 sono diventati lo standard di riferimento globale per ogni e qualsiasi discorso o iniziativa sulla sostenibilità. Lo stesso dicasi per i target dell’Accordo di Parigi per la riduzione delle emissioni di CO2. O per la tassonomia del Piano d’azione dell’Unione europea sulla finanza sostenibile, nata con l’ambizione di definire quali sono le attività economiche che si possono considerare sostenibili nella prospettiva della mitigazione e adattamento alla crisi climatica.
Si cerca, insomma, di arrivare a soluzioni universalmente condivise che permettano di fare dei passi avanti a livello sistemico. Promosse, se non quando imposte, da chi ha l’autorità o se non altro l’influenza per provare a farlo. I tentativi in corso in tal senso sono numerosi. Quelli presentati di seguito sono alcuni fra i principali. Tenendo presente che l’avvicendarsi delle iniziative sta avvenendo a ritmo sempre più accelerato.
Cominciamo proprio dagli standard setter che in questi anni si sono affermati e che non a caso per primi riconoscono la necessità, nell’interesse comune, di cooperare. Ai già citati GRI e SASB si sono aggiunti CDP, CDSB (Climate Disclosure Standards Board) e IIRC (International Integrated Reporting Council) nell’esprimere l’intenzione di coordinarsi per sviluppare modelli e soluzioni sempre più allineati. Con l’obiettivo ultimo di accrescere quella trasparenza, quella comparabilità, quell’affidabilità dei dati e delle informazioni, veicolati nella reportistica sulla sostenibilità, che i mercati e in ultima analisi gli stessi risparmiatori e consumatori oggi chiedono a gran voce per orientare scelte d’investimento e di consumo.
Una delle iniziative recenti che hanno avuto maggiore eco è quella che vede coinvolte, sotto l’ègida del World Economic Forum, le più grandi società di revisione del mondo. L’idea è quella di sviluppare metriche che aiutino a realizzare, attraverso una reportistica evoluta, il cosiddetto “stakeholder capitalism”. Consegnando contemporaneamente alla storia quel modello di capitalismo orientato alla massimizzazione nel breve termine del valore per gli azionisti che, come i fatti hanno dimostrato, finisce per accrescere più che altro la ricchezza dei pochi e non è strutturalmente capace di aumentare, come invece ha fatto credere per lungo tempo, il benessere dei più. Governance, pianeta, persone, prosperità, sono i quattro pilastri da cui la Measuring Stakeholder Capitalism Initiative ha preso le mosse. E già importanti realtà corporate internazionali si sono impegnate ad adottarla.
Restringendo il campo all’Unione europea, dopo la “rivoluzione” avviata a marzo con l’entrata in vigore dell’informativa sulla sostenibilità nei servizi finanziari (SFDR), ora gli occhi sono puntati sulla revisione della Non-financial reporting directive (NFRD). Introdotto con la direttiva 2014/95/EU, quello che in Italia è noto come obbligo di dichiarazione non-finanziaria già allora aveva rappresentato uno spartiacque nella reportistica di sostenibilità, dall’era della volontarietà a quella della obbligatorietà. Ancor più oggi. Il rapporto pubblicato a febbraio da Efrag (European Financial Reporting Advisory Group) è uno dei documenti fondamentali sulla base dei quali la Commissione europea è chiamata ad avanzare la sua proposta di revisione della NFRD. Senza dimenticare che di fatto sul medesimo dossier, cioè gli standard di reportistica di sostenibilità, è al lavoro anche l’International Accounting Standard Board (IASB), stimolato in ciò anche da Iosco (International Organization of Securities Commissions), l’associazione delle authority dei mercati finanziari.
Sul fronte degli investimenti a impatto sociale, o impact investing, e quindi della misurazione e valutazione dell’impatto sociale associabile all’attività d’impresa, una delle proposte più avanzate è quella della Impact-Weighted Accounts Initiative (IWAI), che conta fra i principali promotori il professor George Serafeim della Harvard Business School e Sir Ronald Cohen, presidente del GSG (Global Steering Group for Impact Investment). In estrema sintesi, l’obiettivo è quello di integrare fra i costi e ricavi dell’attività d’impresa anche gli impatti che essa produce sulla società e l’ambiente. Stando ai primi risultati derivanti dall’applicazione di tale approccio, una buona fetta di business e di società tradizionalmente considerati profittevoli non lo sarebbero poi così tanto, o forse addirittura per niente, se si guardasse non solo alla tradizionale “bottom line” ma si contabilizzasse il loro impatto sociale complessivo.
L’evoluzione sul fronte del consolidamento e della universalizzazione delle metriche di sostenibilità, come detto, sta avvenendo molto rapidamente. E potrebbe ulteriormente accelerare, specie sulle questioni legate all’ambiente e in particolare al clima, in vista della COP26 di novembre. Sul modello del lavoro sviluppato dalla citata TCFD, ad esempio, ha preso il via la Task Force on Nature-related Financial Disclosure (TNFD), che guarda all’attività d’impresa e d’investimento dal punto di vista della dipendenza, dei rischi e dell’impatto in relazione al cosiddetto capitale naturale. Sui fattori ESG ha accresciuto notevolmente l’attenzione la SEC (la Consob statunitense), rendendolo evidente anche attraverso l’apertura di una sezione dedicata sul suo sito web. La Banca Centrale Europea dal canto suo ha istituito un Climate Change Centre, un passo che solo pochi anni fa sarebbe stato considerato fantascienza e che invece oggi si inserisce sullo sfondo di un ampio dibattito sul ruolo che possono avere le banche centrali nel contrastare la crisi climatica e segnatamente nel monitorare, valutare, integrare nel proprio operato, per poterli auspicabilmente prevenire o quanto meno mitigare, i rischi che da essa derivano per il sistema economico e finanziario. E sempre in Europa è ormai ampiamente avviato il cantiere per l’introduzione della human rights due diligence obbligatoria.
“The sky is the limit”: non ci sono limiti per l’integrazione a tutti i livelli della sostenibilità se guardiamo a quello che potrebbe succedere nel prossimo futuro. Perché ormai la sostenibilità ha sfondato. È il tema di gran lunga più caldo nel mondo della finanza e in quello corporate, ed è destinata a guidare con sempre più decisione la trasformazione del modello di sviluppo. Il mondo lo ha capito e sta cercando di mettere a punto gli strumenti che lo aiutino a misurarsi, a raccontarsi e a definire la roadmap da percorrere. Si spera speditamente oltre che, per una volta, in modo coordinato a livello globale.