L’upcycling tessile diventa legge

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L’upcycling tessile diventa legge

Con il decreto legislativo 116/2020, l’Italia ha anticipato di tre anni, l’obbligo di raccolta differenziata dei rifiuti tessili fissati dall’Unione Europea. C’è già un intero distretto che sa come fare la differenza.

Per prima è arrivata la Francia nel processo dell’upcycling, che a fine 2019 (ma attiva dal 2022) ha approvato la loi anti-gaspillage – ovvero legge antispreco – che vieta ai brand moda di distruggere i propri prodotti invenduti, corrispondenti a un valore annuo di 650 milioni di euro secondo il Ministero dell’Ambiente francese. Il testo obbliga produttori, importatori, distributori e piattaforme online a dare a questi tessili una seconda vita nella direzione dell’upcycling : donandoli a società socialmente responsabili, grazie anche alla semplificazione del processo di donazione che adesso permette di detrarre l’Iva, oppure riciclandoli e rivendendoli internamente. La legge integra anche una normativa EPR (Responsabilità estesa del produttore), che obbliga il settore a finanziare già in partenza lo smaltimento dei rifiuti che produce, cosa che già avveniva per altri comparti come quello alimentare.

A febbraio 2020, il riciclo dei rifiuti tessili è entrato anche nel Green Deal, il piano dell’Unione Europea per trasformare l’economia e lo stile di vita del continente e diventare a impatto climatico zero entro il 2050. La deadline temporale fissata dalle Commissione UE per far raggiungere a tutti gli stati membri l’obiettivo è il 1° gennaio 2025. Poi è arrivata la pandemia ad agire come acceleratore e, con il decreto legislativo 116/2020, l’Italia ha anticipato di tre anni l’obbligo, fissando al 1° gennaio 2022 l’entrata in vigore della raccolta differenziata del tessile. Il PNNR (Piano Nazionale ripresa e Resilienza) è poi ritornato sulla questione, citando esplicitamente l’obiettivo del recupero del 100 per cento dei rifiuti del settore tessile tramite Textile Hubs. A pochi mesi dalla supposta partenza, qual è la situazione italiana?

Secondo il Rapporto Rifiuti urbani 2020 di ISPRA, nel nostro Paese i rifiuti tessili urbani ammontavano a 157,7 mila tonnellate nel 2019, a cui si sommavano le circa 335mila tonnellate di rifiuti speciali prodotti dalle 45mila aziende che operano nel tessile. «Tralasciando il settore dei rifiuti tessili urbani prodotti dalle persone, da strutturare, al momento il recupero degli scarti dell’industria tessile è affidato all’iniziativa privata della singola azienda», spiega Francesca Rulli, fondatrice e ceo della società di consulenza Process Factory, proprietaria del marchio 4sustainability, che garantisce l’autenticità del percorso delle aziende della filiera moda verso la sostenibilità e verso l’upcycling. Fra i protocolli di azioni concrete elaborati dal marchio, Recycle in Cycle ​contiene le linee guida per mappare e implementare il recupero degli scarti, attivati da oltre un terzo delle circa 150 aziende con cui collabora 4sustainability – da Manteco a Reda, a Barberis Vitale Canonico. 

«Sono sempre più i brand, soprattutto nel settore lusso, che riprogettano e riconfezionano capi nuovi, a partire dai propri scarti di produzione, creando dei patchwork, oppure recuperando la materia prima – penso alla lana o al cashmere – facendola tornare da tessuto a filo. Ma si sono anche create società di recupero tessile privato che, d’accordo con i brand e grazie al cassonetto a bordo fabbrica, fanno in modo che lo scarto di collezione venga subito valutato per l’immediato recupero, o destinato ad altri settori come l’edilizia o l’automotive».

L’esempio virtuoso di upcycling del distretto tessile di Prato

Rulli specifica che si tratta soprattutto di recupero pre-consumo: al momento l’unico distretto che riesce ad agire anche su quello post-consumo, ovvero sull’abito finito, è quello di Prato, che con 2mila imprese e oltre 15mila addetti, è il polo tessile più grande d’Europa. Questo avviene perché qui ci si è specializzati nella lavorazione e nel repurposing di fibre pregiate e non, una tradizione che nasce nel 1800 con la rigenerazione dei cenci. Come Comistra, che recupera la lana da maglie e vestiti usati e le dà una nuova vita attraverso il suo impianto completo di carbonizzazione e stracciatura ad acqua, l’unico al mondo ancora operativo. Classificando gli stracci a seconda del colore e mescolandoli tra di loro, arriva a realizzare oltre 250 tonalità. 

Un altro esempio virtuoso lo porta l’azienda Manteco, che dopo aver portato a regime il riutilizzo dei propri scarti di produzione, attraverso Project43 recupera, gestisce e ricicla in modo totalmente tracciato anche i ritagli di confezione dei clienti. Con Project53, invece, recupera dai clienti anche i ritagli di confezione di tessuti prodotti da altre imprese e maglie invendute o difettate, dandogli nuova vita. Forte della propria esperienza sul campo, negli scorsi mesi il distretto tessile di Prato si è candidato per diventare uno dei Textile Hub citati nel PNRR.​

Tra le criticità del recupero delle fibre tessili, Rulli pone anche un tema di innovazione: il mix di fibre diverse che caratterizza la maggior parte dei tessuti rende più difficile e dispendiosa la separazione, cosicché al momento ne vale la pena per fibre pregiate come lana e cashmere ma non per i diffusissimi poliestere e cotone. Sono allo studio processi chimici e macchinari atti allo scopo, ed ecco perché un Textile Hub potrebbe diventare un punto di rifermento anche per sviluppare nuove idee e modelli di business. «Serve attivare immediatamente un confronto con il legislatore e con Sistema Moda Italia, per arrivare allo sviluppo di consorzi di recupero i cui costi non vengano però addebitati alla filiera, già duramente messa sotto pressione dalla pandemia», conclude Rulli. «Il primo gennaio è troppo vicino perché si arrivi alla definizione di un protocollo chiaro, ma sono convinta che il 2022 sarà l’anno decisivo. Il settore è pronto a raccogliere la sfida».​

Giornalista, coordina i contenuti editoriali di How to Spend it, il mensile di lusso e lifestyle del Sole24Ore, edizione italiana del magazine del Financial Times. Scrive di sostenibilità e tecnologia, seguendo le loro ramificazioni nel design, nel food, nell'architettura, nella moda. Ha collaborato con le pagine di cultura e spettacolo de Il Giornale, il magazine della Treccani, Wired Italia, Linkiesta, EconomyUp, Polihub, l'incubatore di startup del Politecnico di Milano. È stata assistente di ricerca all'università IULM per il corso di Comunicazione Multimediale.