L’era del divestment

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L’era del divestment

All'inizio fu il fossil fuel divestment, il disinvestimento dalle fonti fossili di energia (carbone, petrolio e gas). Ora si è allargato a diversi settori. Ecco come.

All’inizio fu il fossil fuel divestment, il disinvestimento dalle fonti fossili di energia (carbone, petrolio e gas). Un movimento, una campagna che prese il via una decina di anni fa nei campus universitari statunitensi e da lì si propagò non alla velocità della luce ma quasi un po’ in tutto il mondo. Al punto da essere considerato il movimento dal basso più vasto, rapido, insomma importante che abbia mai preso forma in relazione a questioni legate all’investimento sostenibile e responsabile, in origine più noto col nome di finanza etica.

Ormai nuovi annunci o chiamate al divestment arrivano a ritmo quotidiano. Giusto per citare alcuni dei più rilevanti, l’anno scorso in occasione del quinto anniversario della pubblicazione dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, che già invitata letteralmente a sostituire “progressivamente e senza indugio” (par. 165) le fonti fossili a favore delle rinnovabili, ha fatto il giro del mondo la notizia che il Vaticano ha esortato i cattolici ad abbandonare gli investimenti nelle fonti fossili e in altri settori dannosi per l’ambiente. Più recentemente, è stato definito storico, anche perché di enorme valore simbolico, l’annuncio dal divestment dalle fossili del fondo pensione dello Stato di New York, uno dei maggiori investitori istituzionali del mondo. All’inizio di quest’anno è stata invece la Banca di Francia a mettere nero su bianco, nella sua revisione delle politiche (di esclusione) d’investimento responsabile, un’adesione non formale ma di fatto al divestment: in particolare, nelle politiche di voto, l’anticipazione del voto contrario allo sviluppo di nuovi progetti legati alla energie fossili. E non va dimenticato, visto quello che è riuscito a fare in pochissimi anni in termini di mobilitazione della masse ai quattro angoli del globo e di diffusione di conoscenza sull’urgenza di affrontare con (molta) più decisione la crisi climatica, che il movimento globale Fridays for Future ha messo il disinvestimento dalle fossili, insieme allo stop a ogni nuovo progetto di sviluppo delle fossili e all’eliminazione dei sussidi alle fossili – tema quest’ultimo su cui ad esempio da anni, in Italia, si spende Asvis-Alleanza italiana per lo Sviluppo sostenibile -, in cima alla lettera inviata ai leader Ue tempo fa. Ancora attualissima, e sottoscrivibile (come, a fine febbraio, avevano già fatto 320 scienziati e circa 130mila cittadini), se è vero che fa ancora bella mostra di sé nelle note biografiche del profilo Twitter di Greta Thunberg.

A fine febbraio sfioravano i 15 trilioni di dollari (15mila miliardi di dollari) gli asset degli investitori istituzionali aderenti al divestment, con in prima fila (più di un terzo del totale) quelli religiosi e con quelli cattolici coordinati dal Movimento cattolico globale per il clima, che per i prossimi mesi sta organizzando un nuovo annuncio congiunto di adesione al divestment da parte di altre organizzazioni cattoliche internazionali. Tuttavia, che il divestment abbia chiaramente vinto, affermandosi come uno degli approcci mainstream alla crisi climatica, non si evince tanto, e solo, dagli indiscutibili successi mietuti appunto fra gli investitori. Quanto, piuttosto, dal fatto che il suo messaggio ha ampiamente varcato l’ambito finanziario, prendendo a contaminare altri settori.

Per comprendere la portata di quella che si può considerare l’influenza culturale esercitata dal divestment al di fuori del mondo finanziario, basta fare qualche esempio. A dicembre la città di Amsterdam è stata la prima al mondo, approvando una mozione, a impegnarsi per mettere al bando le fonti fossili dalle pubblicità visibili in giro per la città, ad esempio sui cartelloni o nelle pensiline degli autobus. Un atto motivato con l’intenzione dell’amministrazione di allinearsi agli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Come dire: o si va per l’Accordo di Parigi, o si continua con le fossili. Tertium non datur. A pressare l’amministrazione cittadina in tale direzione erano state le organizzazioni della società civile riunite nella campagna Fossil Free Advertising, che ha come obiettivo l’emanazione di una legge nazionale per la messa al bando della pubblicità sulle fossili. Un po’ quello che è accaduto per il tabacco, insomma.

Come dice già il nome, si rivolge invece ai creativi la campagna Clean Creatives che chiede di tagliare i legami con l’industria fossile, prendendo un impegno formale, a tre categorie di soggetti-chiave nel mondo delle agenzie di pubblicità e pubbliche relazioni. Il primo è rappresentato dai creativi veri e propri, a cui si chiede di rifiutare ogni contratto che abbia come committente una società, un’associazione di categoria, un’organizzazione che fa riferimento all’industria delle fossili. Un impegno identico si chiede alle agenzie stesse, che vengono invitate a riflettere sul fatto che con questo passo potrebbero risultare più attraenti soprattutto per la prossima generazione di creativi, insomma per i più giovani. E poi ci sono i clienti, cioè coloro che si avvalgono dei servizi delle agenzie per la comunicazione e la pubblicità del loro brand: sono invitati a non avvalersi più dei servizi delle agenzie che si prestano per operazioni considerate di greenwashing a favore di Big Oil.

Ce n’è anche per una categoria che qualcuno potrebbe supporre insospettabile, o comunque una delle ultime da tirare per la giacchetta in queste dinamiche, e che invece se ci si riflette solo un attimo offre servizi cruciali alle grandi corporation, di qualsiasi settore: gli studi legali. Qualche mese fa, infatti, un gruppo di studenti di facoltà giuridiche statunitensi si è chiesto quale fosse il ruolo degli studi legali di fronte alla crisi climatica. La risposta è stata la pubblicazione, a cura di Law Students for Climate Accountability, del primo report in cui i cento più grandi studi legali statunitensi sono stati passati al setaccio, e classificati, in base al contributo che offrono alla crisi climatica. In tre modi: con l’azione di lobbying a favore degli interessi delle grandi corporation dell’oil & gas; con l’assistenza legale per le loro operazioni d’affari; con il supporto legale nei contenziosi.

In potenza, non si vede ragione per cui l’approccio reso celebre dal divestment in ambito finanziario non possa arrivare a contaminare ogni settore economico, sempre mettendo nel mirino il collegamento, qualsiasi forma esso assuma e comunque da recidere, con l’industria delle fossili. L’auspicio, anzi, è che proprio questo accada, perché per il bene dell’umanità è quanto richiede l’urgenza e la gravità incommensurabili della situazione. Il Production Gap Report presentato a dicembre dal Programma dell’Ambiente delle Nazioni Unite dice che per limitare le conseguenze più catastrofiche della crisi climatica occorre tagliare la produzione di combustibili fossili del 6% l’anno da qui al 2030. I Paesi del mondo pianificano invece un aumento della loro produzione, in quella che pare una ricetta sicura per il suicidio. Quelli del G20 in particolare, nei piani di ripresa e stimolo post-pandemia Covid-19, facendo data a dicembre avevano in programma di spendere il 50% in più per settori legati alle fossili rispetto ai settori legati alle energie low-carbon, cosa che il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha definito inaccettabile. Negli Usa, per esempio, una vasta coalizione di organizzazioni ha inviato al neo-presidente Biden una esplicita e articolata richiesta per un piano “build back fossil free”.

Tagliare il legame, quale che sia, con le fossili non è più dunque una questione di opinione, di orie​ntamento o che altro. È una questione di sopravvivenza. Nessun settore economico può chiamarsi fuori. Nessun settore può permettersi di non dare il suo contributo.​​

Giornalista, blogger, storytweeter. Laurea alla Bocconi. Da metà anni ’90 segue il dibattito sui temi di finanza sostenibile, csr, economia sociale. Blogga su mondosri.info. Homo twittante.​​​​