Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Con la crisi del gas e l'urgenza di tagliare i consumi di combustibili fossili per contenere l'emergenza climatica, torna al centro del dibattito la fonte energetica che l'Italia ha bocciato due volte via referendum. A chi conviene?
Il nucleare è associato a emissioni climalteranti particolarmente contenute, 50 volte più ridotte di quelle associate al gas e 100 volte più basse rispetto al carbone, considerando l’intero ciclo di vita di un impianto. Per questa ragione, il nucleare è stato inserito come investimento ecosostenibile di transizione, fino al 2045, nella Taxonomy Regulation europea. Le opinioni rispetto alla sua utilità nelle attuali circostanze, però, non sono unanimi fra gli esperti del settore energetico e nemmeno fra gli esperti del clima.
La nuova capacità di generazione nucleare costa molto di più della nuova capacità rinnovabile. Le stime di Lazard, autorevole fonte di analisi finanziaria francese, indicano un costo medio di 129-198 dollari al MWh per il nucleare, di 26-54 dollari al MWh per l’eolico onshore, di 29-42 dollari per il fotovoltaico a grande scala. A conti fatti, quindi, a parità di energia generata i nuovi progetti nel nucleare costano almeno quattro volte tanto rispetto ai nuovi progetti nelle rinnovabili. Stime simili o anche peggiori per il nucleare sono fornite dalle altre autorità in materia. Non solo. I costi del nucleare mostrano una tendenza all’aumento, mentre quelli delle rinnovabili sono in continuo ribasso: da una parte abbiamo una tecnologia matura, dall’altro un settore giovane che promette ulteriori riduzioni di prezzo man mano che sarà installato a larga scala.
Il nucleare richiede grandi investimenti iniziali a fronte di tempi lunghi per la messa in funzione, all’opposto delle rinnovabili. La realizzazione di un progetto di centrale nucleare richiede tipicamente almeno 10 anni, mentre per le rinnovabili basta meno di un anno. Tempi lunghi e un enorme esborso up-front si accompagnano a un rischio d’investimento molto maggiore, data l’impossibilità di prevedere un aumento dei costi in corso d’opera: inciampi nella costruzione, blocchi da parte delle autorità per problemi di sicurezza, ritardi enormi e massiccia lievitazione dei costi caratterizzano i cantieri di molti nuovi reattori in Finlandia, Francia, Stati Uniti, scoraggiando, insieme ai rischi legati a possibili variazioni legislative, ulteriori progetti. Le rinnovabili, dunque, se impiegate al posto del nucleare, possono iniziare a risparmiare emissioni parecchi anni prima: questo per la comunità scientifica è fondamentale, considerando il limitato periodo temporale a disposizione per prevenire cambiamenti climatici catastrofici.
Il nucleare civile è associato alla proliferazione di armamenti nucleari. I campioni del nucleare civile in Europa (Francia e UK) hanno anche “la bomba”. UK e Francia sono il terzo e il quarto Paese del mondo ad averla sviluppata, dopo gli Stati Uniti e la Russia (allora Unione Sovietica). Solo altri sette Paesi al mondo, per ora, possiedono armamenti nucleari, ma quasi tutti i Paesi che utilizzano il nucleare civile fuori dall’Europa hanno anche cercato di sviluppare armamenti nucleari. Questa è la principale minaccia alla sicurezza posta dall’energia nucleare.
Quanto al rischio di incidenti catastrofici, il nucleare è uno dei metodi più sicuri di produzione di energia: ad eccezione di Chernobyl, gli altri incidenti nucleari non hanno registrato un alto numero di vittime legate alle radiazioni. La stragrande maggioranza delle 20mila vittime di Fukushima è stata causata dalle calamità naturali del terremoto e dello tsunami che ne è seguito. Non solo. Il nucleare, sostituendo le fonti fossili, ha permesso negli anni di risparmiare quasi 2 milioni di vite umane, che altrimenti sarebbero andate perse a causa dell’inquinamento dell’aria, inquinamento che oggi uccide quasi 9 milioni di persone l’anno. Resta il fatto che un incidente nucleare grave, come quello avvenuto a Chernobyl, può avere conseguenze molto più catastrofiche degli incidenti associati alle centrali elettriche convenzionali.
I rifiuti radioattivi si dividono fra quelli a bassa e quelli ad alta radioattività. Nella prima categoria rientrano i materiali derivanti dalla diagnostica medica, dai centri di ricerca, dall’industria e anche i materiali contaminati derivanti dalle attività dei reattori (dagli indumenti protettivi degli operatori ai residui dell’acqua dei circuiti di raffreddamento). La radioattività di questi rifiuti raggiunge valori trascurabili nel giro di 300 anni. Per questi rifiuti esistono già circa 140 depositi sicuri nel mondo e anche l’Italia sta cercando da decenni di crearne uno. Al momento, in Italia questi rifiuti sono sparsi tra più di 80 depositi diversi, compresi molti ospedali.
I rifiuti radioattivi ad alta attività, invece, sono soprattutto costituiti da combustibile nucleare esausto e decadono in decine di migliaia di anni. Si tratta di materiale estremamente caldo e radioattivo, che deve essere trattato con sistemi da remoto. La questione del loro smaltimento è dunque molto più complessa del trattamento di rifiuti a bassa attività e non è stata ancora risolta. L’idea è stoccarli in depositi geologici profondi dai 200 ai 1000 metri, che dovrebbero garantire la resistenza a qualsiasi sconvolgimento politico, sociale o ambientale per periodi in scala geologica (centinaia di migliaia anni), senza richiedere alcuna manutenzione. In Europa, queste scorie dovranno essere collocate in un deposito comunitario, su cui però l’Unione non ha ancora trovato un accordo.
Perché allora, secondo l’International Energy Agency (IEA), dovremmo installare nuova capacità nucleare per assicurare una transizione energetica ottimale? Senza il nucleare a stabilizzare la rete, sostiene IEA, la transizione verso un sistema energetico pulito sarebbe «molto più difficoltosa e costosa». Il sistema energetico a basse emissioni di carbonio, infatti, sarà caratterizzato da una forte prevalenza di rinnovabili intermittenti e non programmabili, governate della variabilità del vento, delle condizioni meteo e dall’assenza di luce solare di notte. Per poter assicurare una fornitura stabile di energia indipendentemente ed evitare possibili blackout, sarà necessario avere a disposizione anche fonti non intermittenti, come l’idroelettrico, e meccanismi di storage, che possano sopperire alla carenza di energia rinnovabile nei momenti di produzione ridotta. Il nucleare, secondo la Iea, potrebbe essere parte della soluzione a questo problema: non è una fonte intermittente e, anche se in maniera limitata, può aggiustare le proprie operazioni per seguire le variazioni di domanda e offerta. Si tratta inoltre di una tecnologia matura e a basse emissioni di carbonio. «Realizzare la transizione energetica pulita con meno nucleare è possibile, ma richiederebbe un impegno straordinario», dice la Iea. «Nei prossimi 20 anni, per compensare il declino del nucleare sarebbe necessario installare quasi cinque volte la capacità eolica e solare aggiunta nei Paesi avanzati negli ultimi vent’anni», precisa l’agenzia, che è il braccio energetico dell’Ocse. Va detto, però, che le previsioni Iea sul futuro dei sistemi energetici, e in particolare sulla velocità di sviluppo delle fonti rinnovabili, si sono finora rilevate troppo pessimistiche: la capacità solare installata oggi nel mondo è pari a più di 50 volte la previsione dell’Iea del 2002.
Le centrali nucleari richiedono grandi quantità di acqua per poter essere costantemente raffreddate: vengono quindi costruite accanto al mare, ai laghi o ai fiumi. A causa dell’aumento delle ondate di calore dovuto ai cambiamenti climatici, nei giorni più caldi – specie se a seguito di periodi secchi con portate dei fiumi ridotte – è sempre più spesso necessario ridurre la loro produzione o addirittura fermarla, in quanto non è possibile raffreddarle adeguatamente. È accaduto ad esempio alle centrali francesi e tedesche durante i picchi di calore nell’estate 2019, con contrazioni registrate della produzione nucleare francese dell’8%. Questi malfunzionamenti sono concentrati proprio nei periodi di massima richiesta di elettricità per il raffrescamento: momenti in cui la rete elettrica è più vulnerabile e in cui la capacità di queste centrali di attivarsi al bisogno è più richiesta e vitale per la popolazione. Le centrali nucleari potrebbero rivelarsi insomma, almeno in estate, una fonte di energia meno stabile o affidabile di quanto si creda.
Posto che i nuovi progetti nucleari non sono economicamente convenienti, vale la pena di estendere la vita operativa delle vecchie centrali, come sta facendo la Francia, o non conviene invece smantellarle e dirottare i fondi associati ai costi di mantenimento del nucleare sullo sviluppo di nuovi impianti da fonti rinnovabili, come sta facendo la Germania?
L’International Energy Agency valuta i costi di estensione della vita operativa di vecchie centrali molto inferiori ai costi di realizzazione di nuovi progetti rinnovabili. Altri esperti, invece, come Amory Lovins, sostiene il contrario, confrontando i prezzi dell’energia rinnovabile negli accordi di fornitura sul mercato statunitense con i costi di produzione nucleare dichiarati dal Nuclear Energy Institute (prezzi che escludono i costi di costruzione e finanziamento, già ammortizzati per le vecchie centrali). Conclude: «Per la maggior parte degli impianti nucleari, oggi costa di più mantenerli in funzione – includendo grosse riparazioni, che aumentano con l’età – di quanto si possa guadagnare con la loro produzione. Costa anche di più mantenerli in funzione che fornire gli stessi servizi costruendo e mettendo in opera nuove rinnovabili, con o senza i sussidi pubblici, o usando l’elettricità in modo più efficiente». Insomma, secondo Lovins, «mentre chiudiamo le centrali a carbone per ridurre le emissioni di carbone direttamente, dovremmo anche chiudere le centrali nucleari più problematiche e reinvestire gli ampi costi operativi risparmiati in opzioni meno costose per risparmiare emissioni indirettamente. Questi due step per la protezione del clima non sono alternativi, sono complementari».
Rimane ancora un nodo da sciogliere: rinunciando al nucleare, quanto è concreto il rischio di sostituire queste infrastrutture, costose ma pulite, non con le rinnovabili ma con il gas, l’altra tecnologia appena inserita dalla Commissione come investimento ecosostenibile di transizione, fino al 2030, nella Taxonomy Regulation europea? Anche le centrali a gas, infatti, richiedono ingenti investimenti iniziali: questi impianti, benché venduti come infrastrutture di transizione, rimarrebbero come una zavorra ad impedire la crescita delle rinnovabili ben oltre il «periodo di transizione». La questione della resilienza della rete potrebbe facilmente portare anche i decisori più virtuosi a favorire investimenti nel gas, ma la generazione a gas emette la metà dei gas climalteranti rispetto al carbone: è quindi ben lontana dall’essere low-carbon. Per non passare dalla padella alla brace, evitare il nucleare nel mix energetico dell’immediato futuro può essere ragionevole solo a patto che quegli investimenti vengano dirottati su rinnovabili e accumuli, oppure nella ricerca sulle tecnologie più innovative per colmare i gap relativi alla natura intermittente di molte rinnovabili.