Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
I dati confermano la necessità di agire in fretta per cercare di contenere gli effetti legati al surriscaldamento, prima che sia troppo tardi. Intanto abbiamo a che fare con fenomeni climatici estremi dalla siccità agli uragani.
I dati confermano la necessità di agire in fretta per cercare di contenere gli effetti legati al surriscaldamento, prima che sia troppo tardi. Intanto abbiamo a che fare con fenomeni che indicano un clima pazzo dalla siccità agli uragani.
«Se all’improvviso si abbattessero massicciamente le emissioni di anidride carbonica, il principale responsabile dell’effetto serra, per invertire la tendenza al surriscaldamento terrestre, ci vorrebbero decenni, anche se siamo nel terreno delle ipotesi e una previsione è impossibile. In linea generale, però, non basta spegnere il ‘motore’ di un’auto lanciata a fortissima velocità per fermarla, se stiamo viaggiando a tutto gas». Valerio Rossi Albertini, uno dei più rinomati fisici italiani, ricercatore del Cnr, il Consiglio nazionale delle ricerche, volto noto della Tv, usa un paragone motoristico per far comprendere come ci stiamo avvicinando ad un clima pazzo. Lo scenario attuale, infatti, è caratterizzato da un continuo aumento delle emissioni e da fenomeni estremi che non sembrano attenuarsi.
Il principale responsabile di questo stato di cose è l’innalzamento della temperatura. Secondo i dati della Nasa, l’Agenzia spaziale statunitense, parliamo di un aumento di 1,1 gradi dalla rivoluzione industriale a oggi. A un occhio non esperto appena un grado, o poco più, in duecento anni può sembrare un’inezia, ma non è affatto così. «Quando si altera un parametro fondamentale come la temperatura di un sistema così complesso e inter correlato come il nostro pianeta – spiega lo scienziato – le conseguenze non sono mai di un unico tipo. Ci lasciamo alle spalle un’estate caratterizzata da un caldo torrido e da una elevata siccità. Questa situazione rappresenta soltanto una faccia della medaglia: a causa dell’assenza di precipitazioni e della grande evaporazione delle masse oceaniche si è prodotta una elevata concentrazione di umidità in atmosfera, che ricadrà di certo a terra sotto forma di nubifragi. Sono le famose bombe d’acqua, termine di certo non scientifico ma che rende bene l’idea di un fenomeno tanto intenso e spesso distruttivo per la sua capacità di scaricare una quantità di pioggia equivalente a quella che cade in un anno in appena uno/due giorni.
Questi due aspetti che sembrano antitetici, ovvero siccità e nubifragi, non sono indipendenti ma, al contrario, appaiono strettamente correlati fra loro, perché entrambi dipendono dal fatto che l’alta temperatura comporta l’innesco di condizioni estreme. Vorrei ricordare che questa del 2017 è stata la seconda estate più calda dopo quella del 2003, anche se la differenza di temperatura è stata minima: quello che preoccupa è la tendenza al continuo rialzo, per cui la prossima estate, o la forse la seguente, batterà questo primato di temperature sahariane, elevate e persistenti. Stesso identico discorso può essere fatto per l’uragano Harvey che ha colpito Houston ad agosto: assistiamo a un crescendo della violenza di questi fenomeni, che si sono sempre verificati ma che, a differenza del passato, diventano ogni anno più frequenti e interessano latitudini sempre più settentrionali».
Non ci si illuda che le ripercussioni si limiteranno semplicemente a un crescente ma dopotutto gestibile disagio che potrà essere attenuato dall’uso di sempre più moderni e performanti impianti di climatizzazione. Uno studio del Cnr ha messo in evidenza che per la siccità e le continue e prolungate ondate di calore, in Sicilia il 70% del territorio è a rischio desertificazione, mentre, nelle altre regioni del Sud, questa percentuale scende di poco e oscilla sempre fra il 40 e il 50%. La metà dei campi coltivati nel Sud Italia, fiore all’occhiello della nostra produzione agricola, rischia di diventare sterile.
Basta rivolgere lo sguardo a terre poi non tanto lontane dalla nostra Europa per rendersi conto che non si parla di previsioni ma in alcune zone del nostro pianeta di fenomeni reali e, quindi, della triste constatazione di un dato di fatto. «Le nostre latitudini sono state interessate solo recentemente da questi sconvolgimenti – continua Albertini – e il territorio ha dimostrato una certa capacità di recupero. Ma ci sono aree dell’Africa e dell’Asia dove ormai il deserto è avanzato inesorabilmente e non piove più. Una situazione che ha un impatto fortissimo non solo sotto l’aspetto economico o ambientale, ma anche sociale: facile attendersi un aumento dei flussi migratori verso il Mediterraneo. Piccoli coltivatori che un tempo erano in grado di sopravvivere grazie al loro campo hanno perso all’improvviso l’unica fonte di sussistenza».
Gli accordi di Parigi del 2015, sottoscritti da 195 Paesi che hanno definito un piano d’azione globale per limitare il riscaldamento sotto i 2 gradi rappresenta un passo avanti sulla strada della presa di coscienza del problema ma sulla sua reale attuazione ed efficacia grava la politica di importanti nazioni, Usa in testa. «Il problema degli accordi è che non sono vincolanti. Quindi ognuno dei firmatari può violarli senza che questo comporti una condanna o sanzione, se non di carattere puramente morale. Inoltre –continua lo scienziato italiano – gli obiettivi non sono molto ambiziosi, le riduzioni sono marginali ed ipotetiche».
Non resta quindi che arginare i danni in attesa di soluzioni definitive che al momento non sembrano profilarsi all’orizzonte. «La messa in sicurezza dal rischio idrogeologico – spiega Albertini – con un piano finalmente organico e generalizzato, rappresenta una forma di adattamento a una situazione immutabile nel breve e medio periodo. Non illudiamoci: non sappiamo dove, né siamo in grado di prevedere quando, ma quest’autunno parleremo sicuramente di nuovi eventi alluvionali. Stiamo ‘guidando’ a tutta velocità a occhi chiusi su una strada, sapendo benissimo che sul nostro percorso incontreremo dei semafori: impossibile sapere con certezza quando e dove attraverseremo un incrocio con il rosso ma, se la strada è sufficientemente lunga, possiamo star certi che prima o poi urteremo un’altra auto».
La scelta obbligata quindi rimane quella dell’investimento sempre più massiccio in energie rinnovabili e nella riduzione di tutte le emissioni legate alle attività umane. È necessario bloccare un meccanismo perverso: «Quanto più aumenta l’effetto serra – conclude – tanto più si sciolgono i ghiacci (link articolo scioglimento ghiacci). Il ghiaccio, soprattutto quello polare, rappresenta il termostato naturale che contribuisce a mantenere relativamente bassa la temperatura del pianeta. Una volta sciolto, nulla contrasterà l’aumento di temperatura: oltretutto, nei ghiacci sono immagazzinati altri gas serra, anche più pericolosi dell’anidride carbonica, che quindi, una volta liberati contribuiranno, ad aumentare la concentrazione dei gas e ad amplificare gli effetti climatici estremi». Si pensi che, secondo i dati pubblicati dalla Nasa dal 2002 al 2006, la calotta della Groenlandia ha perso qualcosa come 150-250 chilometri cubici di ghiaccio mentre l’Antartide 150. E di certo le notizie del collasso di un pezzo della piattaforma di Larsen al Polo Sud, grande quanto la Liguria, nel luglio scorso, rappresentano un campanello d’allarme.
Massimo Frezzotti, glaciologo dell’Enea e presidente del Comitato glaciologico italiano sottolinea che «il distacco di questo iceberg è un segnale significativo di un processo avviato anni fa – ha rilevato l’esperto – e continua a fare della piattaforma Larsen un vero e proprio sorvegliato speciale».
Per Frezzotti questo distacco «di per sé non è un evento catastrofico, ma è il segnale significativo di un processo che si è avviato da tempo e bisognerà vedere l’andamento della situazione nei prossimi anni». Il ghiacciaio alla deriva corrisponde infatti a circa il 10% dell’intera piattaforma, della quale restano ancora integri circa 50.000 chilometri quadrati.