Glasgow: fra la fine del mondo e la fine del mese

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Glasgow: fra la fine del mondo e la fine del mese

COP26 è un vertice critico per il futuro del clima: ce la faremo a tenere l’aumento medio di temperatura entro 1,5 gradi centigradi? Dipende tutto dagli NDC.

Contenere la temperatura del Pianeta entro 1,5 gradi centigradi è la posta in gioco alla COP26 di Glasgow. Su questo i Governi dovranno confrontarsi ma su cui tutti noi e i media dovremo far sentire le nostre voci se un futuro vogliamo averlo.  A prima vista, è quindi chiaro l’obbiettivo e ciò che tutti noi dovremmo reclamare a gran voce: abbattere al massimo le emissioni. Solo che questo obbiettivo incontrovertibile dobbiamo raggiungerlo in un sistema complesso, ove la soluzione ottimale di un problema non è necessariamente la migliore se questo problema è collegato a un altro. Fra la fine del mondo e la fine del mese, scelgo il mese scrissero i Gilet Gialli francesi reagendo alla proposta di una tassa ecologica sui carburanti, e non avevano tutti i torti.

Sull’orizzonte clima, dobbiamo coordinare almeno due ordini distinti di interessi. Anzitutto quello universale e condiviso a prevenire un futuro che il Forum di Davos, fra gli altri, definiva in gennaio “cataclismico”. In apparente contrasto con questo imperativo globale, vi è tuttavia il tentativo di ciascuno di moderare i propri impegni soprattutto per evitare che la transizione sostenibile imponga costi distribuiti iniquamente, e per alcuni così elevati da mandare in shock interi settori. Nell’apparente inconciliabilità fra questi due diversi livelli della posta in gioco, il negoziato climatico – il più vasto e inclusivo della storia – ha dato l’impressione di un disfunzionale litigio su chi deve tappare la falla mentre la nave affonda. Ma non è così semplice, perché dobbiamo guardare al risultato concreto finale. In effetti, certe scelte di diminuzione delle emissioni sembrerebbero ottimali, ma implicherebbero il crollo di alcuni settori o l’impoverimento di intere comunità, col risultato che queste entrerebbero in stato di disorganizzazione e conflitto, ovvero dinamiche che alla fine produrrebbero molte più emissioni di quante se ne sono risparmiate.

In questa luce dobbiamo capire come modulare le nostre aspettative e le nostre rivendicazioni, capendo che il negoziato riguarda sì le emissioni ma è soprattutto una questione di giustizia climatica. Non solo per ragioni etiche ma anche perché i più poveri sono quelli che potrebbero crollare per primi iniziando quei conflitti e quell’incuria del proprio ambiente che sarebbe disastrosa per tutti. E ricordandoci che i più poveri non sono solo in certi paesi ma anche in certe periferie – urbane o rurali – a poca distanza da noi.

Comunque dobbiamo batterci per rimanere sotto 1,5 gradi, in assoluto ma soprattutto impedendo che qualcuno sia la vittima sacrificale perché la sua sventura sarebbe quella di tutti. Per avere la possibilità di limitare il riscaldamento a 1,5 gradi, le emissioni globali devono dimezzarsi entro il 2030 e raggiungere lo “zero netto” entro il 2050. Il più recente rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti scientifici sui cambiamenti climatici (IPCC) del 2021 sottolinea che è ancora possibile raggiungere l’obiettivo di 1,5 gradi, ma solo se si intraprende ora un’azione senza precedenti, perché gli impegni dichiarati finora dagli Stati – NDC, ovvero Nationally Determined Contributions – ci lasciano ancora con un pianeta in fiamme entro pochi anni. Gli NDC presentati nel 2015 non erano collettivamente abbastanza ambiziosi da limitare il riscaldamento globale a “ben al di sotto” di 2 gradi, per non parlare di 1,5 gradi. Tuttavia, ci si aspetta che i firmatari dell’accordo di Parigi presentino nuovi – e più ambiziosi – NDC ogni cinque anni, quindi a Glasgow per la prima volta.

COP26 è il primo test di questa funzione di ambizione. Uno dei principali “parametri di riferimento per il successo” a Glasgow è che il maggior numero possibile di governi presenti nuovi NDC e, quando messi insieme, questi risultino abbastanza ambiziosi da mettere il mondo sulla buona strada per “ben al di sotto” di 2 gradi, preferibilmente 1,5. E la differenza tra 1,5 e 2 gradi non è cosa da poco: ogni incremento di grado si traduce in maggiori rischi per le persone, le comunità e gli ecosistemi.

Ma come fare se, senza tutelare i più deboli, tutto il sistema va a rotoli? Il successo a Glasgow richiede, oltre a impegni di mitigazione molto più ambiziosi, anche che i paesi sviluppati mantengano la promessa fatta nel 2009 di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 per sostenere l’azione per il clima nei paesi in via di sviluppo. I dati ufficiali per il 2020 non saranno disponibili fino al 2022, ma è chiaro che l’obiettivo non è ben lontano dalla realtà attuale. Annunci recenti, tra cui l’impegno del presidente Joe Biden a raddoppiare i finanziamenti statunitensi per il clima, hanno avvicinato i paesi sviluppati a onorare l’impegno, ma sarà necessario fare di più per ripristinare la credibilità e rafforzare la fiducia tra le nazioni in via di sviluppo e sviluppate.

Inoltre, quanto più si è fragili tanto più la priorità passa dal diminuire le proprie emissioni – gli impegni di “mitigazione” – all’urgenza di darsi gli strumenti per far fronte agli impatti comunque inevitabili, ovvero di “adattamento” alla crisi climatica. Il rafforzamento della capacità di adattamento agli impatti dei cambiamenti climatici è quindi un altro elemento fondamentale del puzzle alla COP26, così come la questione di come affrontare i danni economici e non economici causati dagli impatti dei cambiamenti climatici che non possono essere evitati attraverso l’adattamento o la mitigazione, litigioso capitolo negoziale noto come loss and damageSe lasciamo i più poveri a cavarsela da soli, abbiamo perso tutti: se loro non restano a bordo nello sforzo comune di salvare il pianeta perché sono precipitati in un’emergenza in cui non si può pensare al domani, non è matematicamente possibile scongiurare il cataclisma.

E a che punto siamo? A settembre 2021, 86 paesi e l’UE27 hanno presentato NDC nuovi o aggiornati. Alcuni governi, come Cina e Giappone, hanno promesso nuovi obiettivi per il 2030 ma devono ancora presentarli ufficialmente. Alcuni dei nuovi NDC sono incoraggianti: l’Unione Europea mira a una riduzione di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 e l’obiettivo degli Stati Uniti è “una riduzione del 50-52%” rispetto ai livelli del 2005. Tuttavia, anche così gli impegni assunti coprono al massimo il 15% di quelli ulteriormente necessari. Circa 70 paesi devono ancora comunicare obiettivi nuovi o aggiornati. E diversi, fra cui alcuni con un’ottima “immagine climatica” hanno deciso di non aumentare le proprie ambizioni.

È ora compito nostro far capire ai nostri governi che li aspetta una batosta elettorale se non tutelano il nostro futuro, ricordandoci della fine del mese assieme alla fine del mondo. Ma non tanto la mia o la tua – gente che scrive e legge su un computer – bensì ascoltando quel grido di Madre Terra che conosciamo da sempre ma che non vogliamo riconoscere: prima i poveri! Altrimenti, le colpe dei padri ricadranno sui figli e sui figli dei figli; incrociando le dita che non fosse tutto già scritto.​

È​ Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È​ un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.