Quanto pesano i voti per il clima
La contesa fra Biden e Trump per entrare alla Casa Bianca quattro anni fa, fu uno dei primissimi casi in cui Greta Thunberg si espose politicamente in modo netto, affermando che ne
Cosa c’è dietro il fenomeno del Climate Quitters, giovani che lasciano l’impiego per questioni legate al clima e cercano aziende e professioni che aiutano il Pianeta.
Rinunciano, mollano, abbandonano. Che cosa? Il lavoro che avevano, l’azienda in cui lavoravano o magari quella che gli ha appena fatto un’offerta di lavoro. Perché? Perché credono che quel lavoro, quell’azienda, non contribuiscano a fronteggiare la crisi climatica, o peggio ancora l’aggravino, comunque siano troppo poco green e sostenibili, troppo poco impegnate sul clima. E cosa fanno, dopo aver mollato? Si cercano aziende e lavori, o magari se li inventano, che invece li mettano nelle condizioni di fare effettivamente qualcosa di concreto per combattere l’emergenza climatica che avanza.
Li hanno chiamati Climate Quitters, quelli che appunto rinunciano, mollano, abbandonano per questioni legate al clima, alla crisi climatica. È uno dei nuovi fenomeni che interessano il mondo del lavoro e delle imprese a livello mondiale, specialmente con riferimento alle generazioni di lavoratori più giovani. Tra l’altro si inserisce in un movimento anche più ampio, quello della Great resignation: milioni di persone che dopo e a causa della pandemia, che come forse mai prima li aveva obbligati a riflettere profondamente sulle questioni esistenziali e sulle priorità da darsi nella vita, hanno deciso di cambiare lavoro e a volte anche vita. Alla ricerca di un senso che evidentemente il lavoro e la vita di prima non offrivano più.
La paternità del nome si deve a un giornalista di Bloomberg Green. Nell’estate dell’anno scorso ha iniziato via Twitter prima a collezionare, poi a chiedere a chi lo volesse di raccontare la sua, una serie storie di lavori lasciati in svariati campi per combattere la crisi climatica. È stato un boom di risposte. Una parte delle quali sono poi finite in un servizio pubblicato nei primi giorni di quest’anno che ha lanciato per la prima volta in grande stile il termine climate quitters. Dove si raccontavano appunto le storie e le motivazioni di chi aveva detto basta con un certo lavoro, una certa azienda, perché sentiva l’urgenza di dover fare di più per il clima.
Sempre all’inizio di quest’anno, ma stavolta in Gran Bretagna, è stata pubblicata una ricerca che ha nuovamente portato l’attenzione sul fenomeno, anche se da un’angolazione leggermente diversa. Una ricerca dai risultati piuttosto netti: su un campione di circa 6mila intervistati, infatti, è emerso che quasi la metà desideravano che la loro azienda dimostrasse un impegno nei confronti della sostenibilità e degli aspetti ESG (ambientali, sociali e di governance). Uno su cinque ha detto no a un’offerta di lavoro quando il profilo ESG dell’azienda che gliel’aveva fatta non era all’altezza delle loro aspettative. Fra gli impiegati, quasi i due terzi hanno inoltre dichiarato di non voler proprio lavorare in determinati settori per motivi di carattere etico.
Non è certo un caso se uno dei settori ad essere più “mollati” è quello dell’oil & gas, com’è noto il principale responsabile, e di gran lunga, del riscaldamento climatico e della crisi climatica. Si calcola ad esempio che negli ultimi anni l’industria dell’oil & gas abbia perso circa 700mila lavoratori. Un dato in stridente contrasto con quello relativo alla crescita più o meno nello stesso periodo degli occupati nel settore dell’energia eolica (+113.000). Ovviamente sarebbe ingenuo credere che questo vero e proprio crollo di occupati nell’oil & gas (-20%) sia riconducibile unicamente a chi ha deciso di andarsene per motivi etici e legati al clima. Tuttavia è plausibile ritenere che l’ansia da “giorni contati”, che deriva dalla consapevolezza di contribuire alla fine col proprio lavoro in quel settore ad aggravare la crisi climatica, sia uno dei fattori principali in gioco.
Altre ricerche hanno evidenziato come specialmente fra i millennials (i nati negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso) quello delle fossili risulti il settore meno attraente al mondo per cui andare a lavorare. E non è molto più attraente per chi già ci lavora: un’indagine del 2022 effettuata su circa 10mila professionisti del settore energy ha rivelato che più di quattro su cinque (82%), fra quelli attivi nell’oil & gas, prenderebbero in considerazione il passaggio a un altro settore energetico. In particolare, la maggioranza di essi (54%) guarderebbe con favore al settore delle rinnovabili: abbastanza per parlare di “esodo”. Altro tasto dolente per l’oil & gas è la caduta verticale registrata nei nuovi ingegneri petroliferi sfornati dalle università, nonché i casi di università che in giro per il mondo hanno addirittura chiuso i corsi dedicati. Un sondaggio condotto lo scorso anno dall’Università di Yale, su studenti di business school a livello mondiale, ha rivelato che più della metà (51%) sarebbe disposta ad accettare uno stipendio più basso pur di lavorare in un’azienda sostenibile. Forse anche perché il 52% degli intervistati si dichiarano “molto” o “estremamente” preoccupati per l’impatto della crisi climatica.
Del resto chi lavora nel settore delle fossili è il primo a sapere che il suo lavoro non potrà durare a lungo, se il mondo fa sul serio sugli obiettivi climatici che si è dato: continuare a ricercare ed estrarre fonti fossili è infatti la cosa peggiore che si possa fare di fronte al clima che sta impazzendo, come tutte le agenzie competenti in materia recitano ormai in coro e non da oggi. A dimostrarlo è anche il fatto che si moltiplicano, oltre alle indagini, le iniziative che vedono protagonisti gli stessi lavoratori dell’oil & gas, che chiedono con voce sempre più forte di essere supportati, in primis naturalmente dai governi, con piani e investimenti per una giusta transizione che non lasci indietro nessuno, a cominciare evidentemente da loro.
Qualcuno a questo punto potrebbe chiedersi: ma c’è lo spazio per assorbire, a livello occupazionale, tutti quelli che hanno già lasciato, quelli che stanno lasciando e sempre più quelli che lasceranno lavori e aziende poco o per nulla green, sostenibili, climate-friendly? Ebbene, pare proprio che lo spazio non manchi: recenti stime dicono che solo in Italia nei prossimi tre anni ci sarà bisogno di quattro milioni di lavoratori con competenze green di medio-alto profilo. Nel mondo, da tempo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha detto che, se gli Stati fanno sul serio e cioè se porranno in essere le politiche che servono per l’urgentemente necessaria transizione verso un modello di sviluppo green, già entro il 2030 verranno creati 24 milioni di nuovi posti di lavoro. Con cifre di questo genere, e magari al grido di «Climate quitters di tutto il mondo, unitevi!» o cose del genere, potremmo davvero essere solo all’inizio di un esodo di proporzioni bibliche.