Fossil flation: cos’è e perché conta

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Fossil flation: cos’è e perché conta

L’inflazione ha eroso il potere di acquisto negli ultimi due anni. L’aumento dei prezzi dei combustibili fossili è la prima causa. Quali sono le conseguenze per clima e società.

I portafogli degli italiani e di molti europei sono diventati purtroppo molto più leggeri in questi ultimi due anni mentre i carrelli della spesa sono diventati molto più difficili da riempire. L’inflazione ha colpito duro, impennandosi nel 2022 dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, arrivando e mantenendosi per lungo tempo a livelli che non si ricordavano da decenni.

Per spiegare quanto accaduto si è parlato di “fossil flation”, per dire che l’inflazione di questi anni è stata causata principalmente dall’aumento del prezzo dei combustibili fossili. La dipendenza dai quali non solo continua ad alimentare la crisi climatica, ma espone Paesi come il nostro, che ne sono importatori, anche a impatti economici negativi di portata sistemica quando il loro prezzo s’impenna. Ecco il danno ed ecco le beffe. Nelle quali va incluso il fatto che in tutto questo c’è chi invece ci ha guadagnato, e molto: le società energetiche, che grazie a quei rialzi dei prezzi hanno messo a segno extra-profitti stellari.

A poche settimane dallo scoppio della guerra in Ucraina, a parlare esplicitamente di fossil flation era stata la Banca Centrale europea (Bce). Isabel Schnabel, membro del Comitato esecutivo della Bce, aveva chiarito come la fossil flation, riflettendo forti aumenti del petrolio e del gas, fosse responsabile di gran parte del forte aumento dell’inflazione nell’area euro. E che ciò si potesse leggere anche come l’eredità della forte dipendenza dell’Europa dalle fossili, che nei decenni precedenti non era stata ridotta come sarebbe stato invece necessario fare. Il dito era stato anche puntato contro la capacità dei produttori di energia di orientare l’offerta in un mercato oligopolistico e contro mercati del petrolio e del gas dove i prezzi vengono artificialmente spinti al rialzo a scapito degli importatori, come appunto i Paesi dell’Eurozona.

Di contro, Schnabel aveva fatto sua l’espressione già utilizzata dal ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, riferendosi alle energie rinnovabili come alle “energie della libertà”, sottolineando che quando la domanda di energia potrà essere soddisfatta in larga parte dalle energie rinnovabili, le famiglie potranno beneficiare di prezzi dell’elettricità più bassi. Un ragionamento assolutamente in linea con quello del Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, che ha affermato che solo le energie rinnovabili possono salvaguardare il futuro, colmare il divario di accesso all’energia, stabilizzare i prezzi, garantire la sicurezza energetica.

A rimarcare il carattere fortemente inflazionistico delle energie fossili è stato più di recente il think tank tedesco Dezernat Zukunft, focalizzato sulle dinamiche macrofinanziarie. Secondo il suo studio “Fossil fuel to the fire. Energy and inflation in Europe”, infatti, ben il 50% dell’inflazione su base annua registrata nell’Unione europea nell’anno del picco dell’ondata inflazionistica, il 2022, è stato dovuto all’energia e in particolare all’aumento dei prezzi dei combustibili fossili. Con ulteriori effetti inflazionistici, per giunta, dovuti agli impatti indiretti esercitati sui prezzi di altri beni, quali in particolare gli alimentari. Fenomeno confermato anche da analisi del Fondo Monetario Internazionale, secondo le quali aumenti dell’1% del prezzo del petrolio portano ad aumenti dello 0,2% del prezzo delle materie prime alimentari. In Gran Bretagna c’è stato persino chi si è divertito a raccontare ironicamente su Twitter, con dovizia di dati e riferimenti, come fra le vittime della fossil flation sia finito pure il prezzo del cetriolo, iconica farcitura di sandwich e tramezzini che oltremanica sono irrinunciabili.

Il messaggio uscito dallo studio tedesco non poteva quindi essere più chiaro: non solo le energie rinnovabili rappresentano la direzione da prendere con sempre maggior decisione nella prospettiva del contrasto alla crisi climatica, ma sono anche quelle che meglio possono contribuire, ovviamente se assistite da politiche adeguate (ad esempio per quanto concerne gli investimenti nelle reti, nello stoccaggio, ecc.), a combattere l’inflazione, nel breve come nel lungo periodo.

Detto in altri termini: i combustibili fossili sono sinonimo di instabilità, economica oltre che politica, mentre le energie rinnovabili hanno tutte le carte in regola per diventare un pilastro della stabilità futura. Forti anche di una prolungata, storica tendenza al ribasso dei costi di cui è più che plausibile attendersi il proseguimento e il rafforzamento in futuro. Anche l’Agenzia internazionale dell’energia ha calcolato che tra 2021 e 2023 una più rapida diffusione delle energie rinnovabili ha permesso ai consumatori europei di risparmiare circa 95 miliardi di euro e ha ridotto i prezzi dell’elettricità fino al 15%. Non stupisce quindi vedere che a metà febbraio di quest’anno, in risposta a una serie di petizioni fra cui quella della campagna Fossil Free Politics – che chiede di tenere fuori gli interessi dell’industria delle fossili dalla politica, similmente a quanto avvenuto con l’industria del tabacco -, si sia tenuta presso il Parlamento europeo un’audizione pubblica per discutere delle responsabilità delle aziende produttrici di combustibili fossili in riferimento alla crisi causata dal costo della vita.

Ad essere quindi sul banco degli imputati è, più in generale, la storica dipendenza dalle fossili dell’Europa, e non solo dell’Europa. A metterla nel mirino è stata una recente ricerca di Positive Money, organizzazione non profit britannica di ricerca e advocacy per la trasformazione del sistema bancario e monetario al servizio di un’economia più giusta, democratica e sostenibile. “Inflation as an ecological phenomenon”, questo il titolo dello studio, analizza le relazioni tra fossil flation, che presenta come fenomeno ampiamente conosciuto da lungo tempo (vedere gli shock petroliferi degli anni ’70) e che lo scoppio della guerra in Ucraina ha semplicemente esacerbato, e “climate flation”, espressione con cui ci si riferisce agli effetti inflazionistici prodotti dalla crisi climatica (ad esempio la riduzione dell’attività agricola a causa dei danni provocati da eventi meteorologici estremi sempre più frequenti ed intensi, come periodi prolungati di eccezionale siccità).

Lo studio chiama in causa direttamente le banche centrali. Afferma che la politica monetaria ortodossa (tradotto: fare leva solo sul tasso d’interesse) non riesce a incidere sui fattori principali che determinano l’inflazione, cioè soprattutto i prezzi delle fossili, che sono fissati a livello internazionale, sono soggetti a dinamiche geopolitiche, alle guerre e non da ultimo all’avidità dei produttori (ritorna il tema degli extra-profitti di cui sopra): secondo lo studio, infatti, al suo picco addirittura il 75% dell’inflazione registrata nel Regno Unito è da considerare fossil flation, cioè può essere ricollegata all’impennata dei prezzi dell’energia. Di conseguenza, le politiche monetarie ortodosse si rivelano inefficaci, se non controproducenti, se si guarda all’obiettivo della stabilità dei prezzi. In tali politiche, invece, le banche centrali dovrebbero integrare considerazioni ambientali e ricercare nuovi accordi monetari internazionali per perseguire contemporaneamente la stabilità dei prezzi e la transizione ecologica.

Fra i suggerimenti conclusivi che il rapporto di Positive Money offre c’è quello di aumentare gli investimenti nelle energie rinnovabili e, invece, rendere più difficile per le banche sostenere finanziariamente le fonti fossili. Dove l’abbiamo già sentito? Non sarà che la lotta contro la crisi climatica e quella contro l’inflazione vanno a braccetto? Non sarà per questo motivo che l’ambizioso pacchetto di misure sul clima varato nel 2022 negli Usa è stato chiamato Inflation Reduction Act?

Vien quasi da dire: tutto si tiene. Come sempre.

Giornalista, blogger, storytweeter. Laurea alla Bocconi. Da metà anni ’90 segue il dibattito sui temi di finanza sostenibile, csr, economia sociale. Blogga su mondosri.info. Homo twittante.​​​​