Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Dopo l'utilizzo dei combustibili fossili, la seconda causa del riscaldamento globale e quindi della crisi climatica è la deforestazione. Come agire.
Il fenomeno ha ormai raggiunto proporzioni gravissime. Si calcola che, su circa quattro miliardi di ettari di foreste presenti sul pianeta, tra il 2015 e il 2020 siano spariti dieci milioni di ettari di foreste l’anno. Andava pure peggio nel quinquennio precedente, quando andavano persi dodici milioni di ettari l’anno. Negli ultimi trent’anni circa, al mondo sono state distrutte foreste per un’area pari a quella della Libia.
Nel solo 2021 si parla di una perdita di manto forestale di 3,75 milioni di ettari solo di foreste pluviali tropicali: circa dieci campi da calcio al minuto, secondo i dati del World Resources Institute, che con l’iniziativa Global Forest Watch offre una mappa interattiva che permette di monitorare la situazione del patrimonio forestale globale utilizzando anche dati satellitari. Ad aprile di quest’anno, poi, la deforestazione nell’Amazzonia brasiliana (che in cinquant’anni ha perso circa il 20% della superficie di alberi) ha tristemente toccato nuovi record, con oltre mille chilometri quadrati andati perduti in un solo mese. E studi a dir poco allarmanti evidenziano come sia da tempo in atto per la foresta amazzonica nel suo complesso un processo di progressiva perdita di resilienza, che se non arrestato avrebbe conseguenze catastrofiche su scala globale già tra dieci-quindici anni.
È per questi motivi, per questi numeri, che il contrasto alla deforestazione è entrato in maniera stabile non solo nelle agende politiche ma anche in quelle degli investitori. Almeno di quelli che si stanno muovendo non solo a parole ma concretamente per destinare risorse al servizio appunto della lotta alla deforestazione.
In questo senso alla COP26 di Glasgow è stato compiuto un passo che permette di avere qualche speranza sul fatto che la comunità internazionale avrà la capacità e soprattutto la volontà politica di invertire il trend della deforestazione. Il passo è quello della Glasgow Leaders’ Declaration on Forest and Land Use, la dichiarazione per la lotta alla deforestazione che è stata sottoscritta da oltre 140 Paesi del mondo (fra cui l’Italia), sui cui territori si trova più del 90 per cento del patrimonio forestale mondiale.
Fra gli elementi che autorizzano a sperare che si tratti finalmente di un punto di svolta, c’è ad esempio il fatto che hanno aderito Paesi come Brasile, Congo, Canada, Russia, giganti forestali planetari. E che si sono scritte nero su bianco cifre sugli impegni finanziari che dovranno essere messi in campo: nel Global Forest Finance Pledge collegato alla dichiarazione si parla di 12 miliardi di dollari di fondi pubblici nel quinquennio 2021-25. Mentre il settore privato si è impegnato a mobilitare investimenti per più di sette miliardi di dollari.
Una delle critiche principali mosse alla dichiarazione, invece, è che ancora una volta si tratta di un accordo non vincolante, lasciato alla responsabilità degli Stati firmatari. E poi si sottolinea che il 2030, anno entro il quale si vuole fermare la deforestazione a livello globale, è troppo in là e non rispecchia l’urgenza di agire qui e ora. A esser pignoli si potrebbe anche aggiungere che non sarebbe stato disprezzabile se nel Glasgow Climate Pact, il documento finale della COP26, oltre al termine “foreste” che compare in un paio di passaggi si fosse stato inserito anche il termine “deforestazione”, che invece è assente e sicuramente non per caso, dato che in documenti di questo livello ogni parola, punto e virgola è frutto di contrattazioni politiche estenuanti.
A prescindere dal fatto che il Glasgow Climate Pact si possa considerare un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, a testimoniare inequivocabilmente che l’attenzione degli investitori per la deforestazione si sia alzata considerevolmente negli ultimi anni ci sono i Principi per l’Investimento Responsabile (PRI) di emanazione Onu. Riconoscono infatti la deforestazione come un rischio sistemico. E inseriscono sul loro sito il tema forestazione in generale fra gli “investment topics” e la deforestazione nello specifico tra le “sustainability issues”, così che incrociando questi filtri si possono operare ricerche sul vasto patrimonio di risorse dedicate che il sito ospita su questi temi. Ad esempio si parla di iniziative di engagement avviate da coalizioni di investitori che cercano di fare pressione sulle società quotate affinché si attivino per ridurre l’impatto sulla deforestazione causato dalle loro catene di fornitura, aumentandone la tracciabilità anche attraverso l’utilizzo di dati satellitari. Fra queste si segnala l’iniziativa Investors Policy Dialogue on Deforestation (IPDD), avviata nell’ambito della Tropical Forest Alliance, che vede una sessantina di investitori internazionali impegnati a confrontarsi con agenzie pubbliche e associazioni di settore per sviluppare azioni e politiche di contrasto alla deforestazione in specifici Paesi, quali Brasile e Indonesia.
La deforestazione, insomma, è finalmente vista come una minaccia finanziaria reale, per cui è imperativo occuparsene in un’ottica di tutela della redditività degli investimenti, specie se si assume una prospettiva di lungo periodo. Per questo gli investitori sono diventati molto più esigenti nel richiedere alle imprese investite informazioni su come e quanto esse sono preparate a gestire, e possibilmente a ridurre, l’impatto della propria attività in termini di deforestazione. Al riguardo potrebbe rivelarsi decisiva l’adozione, specie se avvenisse su larga scala in seguito all’eventuale introduzione di un collegato obbligo di rendicontazione, delle Linee guida elaborate dalla Taskforce on Nature-related Financial Disclosures (TNFD), pubblicate in versione sperimentale a marzo di quest’anno, dove le foreste sono riconosciute come uno degli “asset ambientali” fondamentali da tutelare per i servizi ecosistemici che ci offrono. Modellata sull’esperienza della Taskforce on Climate-related Financial Disclosures (TCFD), le cui raccomandazioni sono diventate il riferimento a livello mondiale per la rendicontazione sui rischi climatici, la TNFD (che pubblicherà le sue raccomandazioni nel corso del 2023) ha come obiettivo quello di guidare imprese e operatori finanziari a misurare e valutare l’impatto delle proprie attività sulla natura, per ridurre l’impatto negativo, possibilmente trasformandolo in positivo, e i rischi di perdite finanziarie conseguenti.
Per gli investitori che con le proprie scelte d’investimento vogliono contribuire alla lotta alla deforestazione, gli strumenti a disposizione comunque già ora non mancano. Fra quelli che spiccano a livello globale c’è senza dubbio Forest 500, un progetto di Global Canopy, l’organizzazione ambientalista la cui missione è un’economia globale “deforestation-free“. Forest 500 stila da diversi anni un ranking delle 500 organizzazioni (350 imprese e 150 istituzioni finanziarie che le supportano) che a livello mondiale stanno maggiormente alimentando la deforestazione, cioè quelle più esposte ai rischi legati alla deforestazione e più influenti lungo le catene di approvvigionamento di materie prime, fra cui soia, carne bovina, olio di palma, carta e cellulosa. Purtroppo, le evidenze emerse nell’ultima edizione del ranking, per usare un eufemismo, non sono brillanti: circa i due terzi delle 150 istituzioni finanziarie monitorate, infatti, non dispongono ancora di una policy sulla deforestazione. Del resto si tratta di risultati in linea con numerose altre ricerche secondo le quali tra mondo bancario e più in generale mondo degli investimenti, fondi pensione, mondo del risparmio gestito (in particolare i suoi maggiori attori a livello internazionale) da una parte, e attività e industrie altamente impattanti in termini di deforestazione dall’altra, i legami siano ancora intensi.
Attori finanziari e imprese dunque possono, anzi, devono fare molto di più per contrastare la deforestazione. Ma è chiaro che i primi a essere chiamati in causa sono i governi, soprattutto quelli dei Paesi più ricchi e industrializzati. Si ripongono ad esempio speranze, di nuovo, sulla bozza di normativa Ue sulla deforestazione di cui si sta discutendo, che si spera non ceda alle pressioni delle lobby e riesca alla fine ad operare un giro di vite su quelle produzioni che hanno un impatto negativo particolarmente intenso sul patrimonio forestale. Al riguardo la campagna #Together4Forests, lanciata da decine di organizzazioni ambientaliste e della società civile fra cui ad esempio il Wwf, e che si avvale della voce di scienziati ed esperti internazionali, mira a fare pressione sul legislatore europeo affinché il testo finale della legge sia il più ambizioso possibile. E includa obblighi per il settore finanziario.
Alla COP27 di novembre 2022 si vedrà se sul no alla deforestazione, facendo seguito agli impegni sottoscritti a Glasgow, la comunità internazionale si sarà finalmente decisa a fare sul serio. Finora, in larga misura, così non è stato. Anche se arrestare la deforestazione, è ormai evidente, significa prima di tutto salvare noi stessi.