Clima: il destino dipende da noi

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Clima: il destino dipende da noi

L’idea che salvaguardare l’ecosistema comporti dei costi pesanti e un impoverimento generale è sbagliata. I comportamenti che tutelano la natura a livello individuale, familiare, locale, di impresa, nazionale e globale creano ricchezza e benessere.

Human crowd forming a big recycling symbol on white background. Horizontal composition with copy space. Clipping path is included. Social Media concept.

L’idea che salvaguardare l’ecosistema comporti dei costi pesanti e un impoverimento generale è sbagliata. I comportamenti che tutelano la natura a livello individuale, familiare, locale, di impresa, nazionale e globale creano ricchezza e benessere.

​​​Il 14 marzo 2019 milioni di giovani e meno giovani hanno risposto alla chiamata di Greta Thumberg e sono scesi nelle piazze a chiedere futuro o quantomeno un pianeta vivibile. Confesso che ero preoccupato dai contenuti iniziali di quella protesta, concentrati sull’esigere dagli altri – e non da noi stessi – il cambiamento necessario: bisogna chiederlo ai governi, alle industrie ma… Io? La tentazione è sempre di rispondere: io sono solo una goccia nell’oceano. Per fortuna i giovani in piazza non ci sono cascati, e prima che ai governi chiedevano a sé stessi – ai coetanei, alle famiglie – di prendere in mano il destino comune.

Cosa possiamo fare noi e quanto i gesti di ognuno sono potenti: altro che gocce, innescano autentici tzunami di cambiamento e, oltretutto, al costo “altissimo” di lasciarci con più soldi in tasca e in un vertiginoso aumento delle qualità delle nostre vite. Posso raccontarvi di gesti semplici e complessi, ma comunque tutti alla nostra portata. Prima, tuttavia, occorrerà introdurre alcuni riferimenti generali, a cominciare dal primo: la posta in gioco e il rapporto costi/benefici.

Siamo al dunque. In una manciata di anni si decide il nostro destino: quello di una fra oltre un miliardo di specie viventi che hanno popolato, nel corso dei millenni, un minuscolo pianeta vagante nell’immenso universo. Su scala cosmica sembra una vicenda irrilevante e forse, obbiettivamente, lo è. Ma dal nostro punto di vista ci giochiamo tutto, e ce lo giochiamo ora. ​

La posta in gioco non è necessariamente l’estinzione del genere umano, anche se questa ipotesi non è più nel dominio dell’impossibile. Ma sicuramente c’è in gioco la convivenza pacifica e organizzata, la sicurezza, la civiltà avanzata e tutte le promesse della democrazia, della società complessa e del progresso tecnologico. Se Madre Terra si ribella al nostro sfruttamento dissennato nel modo previsto dalle varie discipline scientifiche, entro pochi anni si profila il crollo delle collettività umane organizzate per far spazio a un temibile tutti contro tutti.
Non sono i profeti ad ammonirci, è la scienza: tocca proprio a noi, è questa generazione che deve scegliere il proprio fato come specie, e anche se trascinarsene dietro nel baratro molte altre dei quasi nove milioni di specie con cui condividiamo la casa comune Terra in questa era. Sì, perché fra tante, noi siamo una specie particolare in diversi modi. Uno di questi è che come biomassa – quanto pesano tutti assieme gli oltre sette miliardi di donne e uomini – l’umanità rappresenta attualmente solo lo 0,01% della materia vivente sul pianeta; ma abbiamo causato l’estinzione di circa l’80% del resto, portando l’intero sistema della vita vicino a un collasso che rischia di travolgerci anche a noi. Chiaro che di tempo ce ne resta poco per evitare il crollo generale.

La scienza, oltre a dirci che abbiamo pochissimo tempo per invertire la rotta, suggerisce anche che non ci saranno molte vie di mezzo: siamo al dunque e siamo a un bivio, sarà paradiso o sarà inferno. Il collasso della natura ci pone davanti a un’alternativa netta, o si va verso un pianeta molto migliore, più ricco e più vivibile, oppure verso una terra decisamente inospitale per l’umanità. Quest’idea non è molto compresa. Quello che quasi tutti noi pensiamo è che per salvare la natura di cui siamo parte – se ci interessa salvarla – dobbiamo sobbarcarci un mondo peggiore di quello che conosciamo, non un mondo dove stiamo meglio. Sì… l’ecosistema, ci diciamo, forse è necessario evitare che muoia e quindi dovremo rinunciare a molti dei benefici della società dei consumi, rallentare lo sviluppo, avere di meno, sopportare questo sacrificio perché non possiamo fare altrimenti: addio a tutte quelle fantastiche comodità e opportunità di ricchezza!​

La gente la pensa in questo modo. Lo crede in astratto e lo pensa in concreto, ogniqualvolta quel maledetto vincolo paesaggistico ci impedisce di costruirci la villa e bisogna addirittura lasciare la macchina prima dei varchi ZTL – accidenti! – constatiamo che la natura limita i nostri progetti e ci rende scomoda la vita. Non è certo una visione che infonde l’entusiasmo del cambiamento. Tutt’al più – se veramente capiamo che un po’ di ecosistema è necessario – potrebbe motivarci a uno sforzo minimo ineludibile e da rinviare il più possibile: proprio ciò che è successo finora. Solo che così, a forza di rimandare e minimizzare, ci siamo avvicinati pericolosamente ad alcune soglie di non ritorno da una trasformazione traumatica del nostro mondo che non promette vita facile a nessuno.

L’idea che salvaguardare l’ecosistema comporti dei costi pesanti e un impoverimento generale, tuttavia, è sbagliata. È sempre la scienza a dirci che tutti i comportamenti che tutelano la natura, a livello individuale – familiare, locale, di impresa, nazionale e globale – sono anche comportamenti che creano ricchezza e benessere, non povertà e rinunce. Anche se non servissero a proteggere l’ecosistema, sarebbero comunque i comportamenti più convenienti, quelli che ci garantiscono salute, longevità, abbondanza, sicurezza, pace, giustizia, e spesso anche molti più soldi in tasca. In più salvano la Terra: grasso che cola… Ecco perché l’alternativa all’inferno che sta per produrre un ecosistema al collasso non è un purgatorio, un periodo di convalescenza planetaria, di inevitabili sacrifici e di benessere ridotto; potrebbe invece essere un ritrovato giardino dell’Eden di straordinaria abbondanza. ​

La nostra generazione, non i nostri figli, né tantomeno i nostri nipoti, ha quindi pochi anni per scegliere fra paradiso o inferno, e il paradiso non può attendere: abbiamo pochissimo tempo. A spiegare come, quando e perché potremmo presto scatenare un inferno sul nostro meraviglioso pianeta ho dedicato molti libri, e comunque basta spendere qualche ora su internet per rendersi conto che si tratta di una conclusione unanimemente condivisa dal mondo scientifico. In sintesi, abbiamo messo in moto due cicli cumulativi devastanti: uno per cui la distruzione della natura porta la natura stessa ad autodistruggersi sempre di più e sempre più rapidamente, con un effetto a valanga.

Per esempio, uno fra tanti, il riscaldamento globale causato da noi autoproduce sempre più riscaldamento perché fa fondere i ghiacci; infatti, i ghiacci sono bianchi e riflettenti e quindi rispediscono nello spazio molta radiazione solare, e se invece spariscono non lo fanno più e il calore aumenta, con la conseguenza che si fondono distese ghiacciate ancora maggiori in un ciclo crescente e in costante accelerazione. La seconda valanga è addirittura peggiore e riguarda noi: la distruzione della natura riduce le risorse e ci induce quindi a combatterci l’un l’altro per accaparrarci quel che rimane, ovvero ci spinge a un comportamento che distrugge la natura ancora di più, anche in questo caso delineando lo spettro di una devastazione crescente di cui diventiamo attori e nel contempo vittime e che si autoalimenta in un ciclo dai ritmi sempre più accelerati. Siamo sulla soglia di un incubo del genere e gli esperti ci danno fra i dieci e i vent’anni di tempo per correre ai ripari prima che questi cicli dirompenti divengano inarrestabili. Pochi anni per evitare un mondo con meno acqua e cibo, flagellato da eventi climatici violenti, con milioni di migranti in movimento, pochissime certezze e molte lotte per il poco che rimane. Vogliamo un futuro del genere?​

In questa rubrica, tuttavia, non parlerò più di questo inferno possibile: ce n’è già abbastanza, è già tutto scritto ed è accessibile a tutti. Parlerò invece del giardino che potremmo ritrovare se corriamo ai ripari, e del perché sarebbe pura follia incaponirsi sulla strada della distruzione quando cambiare rotta avrebbe come unico prezzo da pagare diventare tutti più ricchi, sicuri, e felici. Se da queste pagine vi aspettate l’ennesima dimostrazione che il problema esiste, e siete fra quelli che devono ancora convincersi che ci stiamo preparando l’inferno con le nostre stesse mani, smettete di leggerle ora. Ho una sola cosa da dirvi: svegliatevi! E ricordatevi che la vostra inerzia, la voglia di negare l’evidenza, o il vostro illusorio interesse a farlo, non li pagherete solo voi, ma anche tutti gli altri e i vostri figli. Avete una responsabilità epocale: e intanto una piccola cosa la potete fare. Appoggiate i milioni di ragazzi che tutto questo lo hanno già capito e non hanno bisogno di leggere le prossime puntate: sono più saggi di noi.​

È​ Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È​ un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.