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Le norme per la carbon neutrality sono chiarissime. Ma c’è ancora poca cultura sulla gestione delle emissioni di carbonio e cadere nelle trappole del finto verde è facile. Changes ne ha parlato con Daniele Pernigotti.
Cresce il numero di aziende che fanno dichiarazioni di carbon neutrality e di sostenibilità anche per essere più competitive. Ma dimostrare il proprio impegno a favore dell’ambiente e della sostenibilità (termine davvero inflazionato) è uno sforzo che va supportato da dati concreti mentre spesso si tratta di greenwashing. Dichiarazioni di facciata, insomma, senza sostanza e senza dati oggettivamente comprovati. Di esempi ne abbiamo tanti sotto i nostri occhi. Dall’uso di un’etichetta “biodegradabile” su un prodotto che non si degrada facilmente, a quello di “naturale” su un prodotto che magari contiene ancora sostanze nocive per l’ambiente. E poi c’è chi promuove bibite (anche famose) in bottiglie di plastica spacciandole come “ecologiche”, quando in realtà la produzione di plastica è una delle principali cause di inquinamento. Come uscire allora da questa giungla di finto verde? Lo chiediamo a Daniele Pernigotti, delegato italiano a livello internazionale in diversi gruppi di lavoro dell’ISO sui sistemi di gestione ambientale e per lo sviluppo di numerose norme sui gas serra. In particolare, ha guidato a livello internazionale lo sviluppo della ISO 14067, riferimento internazionale per il calcolo della Carbon Footprint dei prodotti (CFP) e recentemente è stato anche nominato coordinatore del Comitato Tecnico del CEN (l’ente di normazione europeo, sul cambiamento climatico).
Si tratta della Gestione delle Emissioni di CO2 e degli altri Gas a Effetto Serra. Dal 2005, anno di entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, aziende pubbliche e private hanno iniziato volontariamente a monitorare le emissioni di CO2 (in inglese Carbon) derivanti dalle proprie attività.
Per dare concretezza alle azioni che un’azienda compie per la gestione delle emissioni di gas serra legate all’intero ciclo di vita di un prodotto, si devono quantificare le emissioni che caratterizzano non solo la produzione, ma l’intero ciclo di vita del prodotto. Dall’estrazione delle materie prime costruttive, alla lavorazione e produzione, al trasporto fino al cliente, al suo utilizzo, allo smaltimento. Si tratta di un calcolo che viene fatto sulla base di metodologie tecniche in grado di esprimere l’impatto climatico generato da questo o quel prodotto o servizio durante il suo intero ciclo di vita di LCA (Life Cycle Assessment)”.
Ecco qualche esempio concreto di carbofootprint di prodotto. Indossiamo la nostra T-shirt e chiediamoci che impatto ambientale ha. Ebbene, secondo gli studi redatti dal Sustainable Europe Research Institute su commissione della sezione europea di Friends of the Earth (Amici della Terra), servono ben 2.700 litri di acqua e si emettono 5 kg di CO2 per produrla. Quanto alla carbon footprint di un’organizzazione, Pernigotti spiega che non riguarda solo le emissioni che escono per esempio da un camino, ma anche quelle indirette legate, per esempio, ai propri consumi di energia elettrica oppure ai trasporti.
La norma per la verifica delle Carbon Footprint è la ISO 14064-3 in cui sono riportati i requisiti per verifica e validazione delle emissioni di gas a effetto serra. L ’ente di normazione tecnica internazionale (ISO) ha elaborato quest’ultima norma per creare un approccio coerente in tutto il mondo su come controllare la correttezza delle quantificazioni delle carbon footprint di prodotto e di organizzazione.
Qui si entra a un livello superiore che è quello dell’accreditamento. Da noi c’è ACCREDIA, ma tutti i paesi a livello europeo hanno degli enti di accreditamento, che effettuano tra loro dei controlli incrociati (le PEER EVALUATION).
Si tratta di un programma nazionale di comunicazione della Carbon Footprint è la Carbon Footprint Italy. Consente il rilascio di marchi relativi al prodotto, le organizzazioni, la riduzione delle emissioni e di Carbon Neutrality. Funge anche da registro di crediti di carbonio.
Agire su questi temi è oggi un’opportunità ma domani sarà una necessità. E diffondere una corretta informazione sulla crisi climatica e contrastare il greenwhashing, è un atto di responsabilità. Ecco perché dal 15 giugno esiste l’iniziativa “Voci per il Clima”. Si tratta di un network promosso da Greenpeace che si allarga giorno dopo giorno. A oggi oltre 60 personalità appartenenti al mondo della scienza, imprenditoria, comunicazione, arte e attivismo si sono unite con un impegno comune: favorire un’informazione corretta sulla crisi climatica per evitare il più possibile cadute nella trappola del greenwashing.