Antartide: perché il ghiaccio si scioglie

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Antartide: perché il ghiaccio si scioglie

Nessun componente dell’equilibrio terrestre è più a rischio nell’era del riscaldamento globale: eppure è una catastrofe che ci lascia indifferenti.

Nessun componente dell’equilibrio terrestre è più a rischio nell’era del riscaldamento globale: eppure è una catastrofe che ci lascia indifferenti.

Localizzata nella regione artica vi è la sofferenza – gridata a gran voce – delle popolazioni autoctone che, assieme ai ghiacci, stanno perdendo l’identità e il loro modo di vivere. Sono innumerevoli le testimonianze di un modo di vita sconvolto dall’alterazione del territorio; e gli Inuit hanno tentato di farsi ascoltare attraverso il loro organismo transnazionale, l’Inuit Circumpolar Council, che dal 1977 rappresenta i circa 160.000 nativi delle regioni polari stanziati in Alaska, Canada, Groenlandia e Russia. Essi hanno presentato numerosi appelli, e un vero e proprio SOS alla conferenza sul clima di Durban del dicembre 2011. Bastava però già una frase del loro manifesto del 13 novembre 2009, rivolto alla conferenza sul clima di Copenhagen, per capire: «Siamo profondamente preoccupati per l’impatto attuale e potenziale dei cambiamenti climatici sulla salute culturale, spirituale ed economica degli Inuit attraverso l’intero Artico. Siamo preoccupati per la salute dell’ambiente artico che non sostenta solo noi, ma gioca un ruolo vitale nel mantenere in salute l’intero sistema Terra».

Ma stiamo tranquilli! Ha fatto notizia nei giorni scorsi che un team di ricerca internazionale ha dimostrato come sia sufficiente un aumento medio delle temperature di 2° centigradi per avviare lo scioglimento della East Antarctic Ice Sheet, un’immensa piattaforma di ghiaccio dell’Antartide – grande quanto 60 volte la Gran Bretagna – col soprannome di gigante addormentato. Il rischio però non è immediato, dato che sono necessari duemila anni di riscaldamento continuo. Tutto tranquillo per noi, dunque, forse è vero ma comunque non ci riguarda.

Ma a guardare la nostra biosfera in tutti i suoi meccanismi di interdipendenza – siamo spiacenti – ma ci aspetta una doccia fredda, anzi gelata. I ghiacci stanno fondendo a una rapidità superiore alle previsioni. La fusione dei ghiacci del circolo polare artico ha ben poca influenza diretta sull’innalzamento del livello del mare, in quanto essi sono “a galla” sull’Oceano artico. È come se avessimo un bicchiere con dentro dei cubetti di ghiaccio. Una volta riempito il bicchiere fino all’orlo di acqua, o se si preferisce di whiskey, se si aspetta che il ghiaccio si fonda, si vedrà che il livello del liquido nel bicchiere non cambia: è la situazione della fusione dei ghiacci artici. Invece, se si riempie prima il bicchiere fino all’orlo e poi vi si buttano dentro dei cubetti di ghiaccio, allora si vede che il liquido uscirà dal bicchiere: è la situazione dei ghiacci che si “tuffano” in mare da sopra i continenti. E sono molti, dalla Groenlandia alla Siberia, dall’Antartide all’Alaska, fino ai ghiacciai montani di tutto il mondo. Si calcola che se tutti i ghiacci continentali fondessero – ma questo per fortuna non è previsto, quindi stiamo tranquilli – il livello degli oceani aumenterebbe di quasi 70 metri.

Dato che circa il 40% della popolazione mondiale vive entro 100 chilometri dalle coste, talvolta coste alte solo poche decine di centimetri sul livello del mare, è chiaro che la fusione dei ghiacci continentali va monitorata con attenzione. Gli scenari per fine secolo danno poco meno di un metro di aumento del livello del mare, ma nuovi studi di dinamica dei ghiacci mostrano fenomeni di formazione di “fiumi” interni ai ghiacciai di Groenlandia e Antartide che conducono a movimenti e distacchi più rapidi di ghiaccio – si parla di “lubrificazione” dei ghiacciai – portando a rivedere queste stime verso l’alto, tanto che un aumento di 2 metri appare oggi ragionevole, e comporterebbe lo spostamento di circa 600 milioni di persone. Del resto, per rendere una zona inabitabile, non è necessario che essa venga completamente sommersa dalle acque. Basta anche che le inondazioni sempre più frequenti comincino a salinizzare le falde, che il cosiddetto cuneo salino si insinui nell’interno, per far si che dove prima fioriva vegetazione ed esisteva acqua potabile ora non cresca più nulla. Lo sapevano bene gli antichi Romani, quando spargevano il sale sui campi dei nemici per renderli sterili.

Inoltre, i ghiacciai montani sono in una crescente tendenza all’arretramento in tutto il mondo. Che peccato! Perdiamo la bellezza di certi paesaggi montani… Vero: ma abbiamo anche la diminuzione delle riserve di acqua intrappolate nei ghiacciai. Il cambiamento climatico colpisce più gravemente le aree montuose, sia perché spesso ospitano ecosistemi fragili e altamente sensibili, sia perché vi risiedono popolazioni generalmente più povere, legate a economie isolate e di sussistenza. Il clima che cambia sta già aggravando la fuga dalle montagne – e quindi dinamiche migratorie verso le piane e le città – che erano già consistenti per ragioni sociali e produttive. Ma tutto sommato – si potrebbe cinicamente pensare – le popolazioni montane sono esigue! Il degrado dei loro territori, i movimenti delle loro popolazioni non destano grandi preoccupazioni! A meno che non si sia inguaribili romantici come noi che scriviamo, che consideriamo la morte di una cultura locale una grave perdita; oppure se facciamo calcoli sulla perdita di specie vegetali montane che potrebbero tornarci molto utili in un futuro di possibile scarsità. Il quinoa delle Ande, del resto, è diventato di moda.

Oppure potremmo guardare con obbiettività a un ecosistema essenziale: le montagne coprono il 22% delle terre emerse – predominando in numerosi paesi, compreso il nostro – e raccolgono circa il 70% delle fonti d’acqua dolce, il 23% della copertura forestale mondiale, il 25% della biodiversità, il 60% delle riserve della biosfera dell’UNESCO, e catalizzano fra il 15 e il 20% del turismo mondiale. La popolazione delle montagne non è di scarsa entità, si tratta del 13% della popolazione mondiale, con circa 915 milioni di residenti. Ma è frammentata, e ciò rende la voce delle montagne poco potente, dandoci l’impressione che rappresentino un problema minore.

Ma anche a voler essere cinici – solo il 13% della popolazione? – dobbiamo fare i conti con la gravità: quel che succede a monte, in alto, si abbatte a valle, sulle piane popolate e fertili; specie se riguarda qualcosa che scorre via facile, come l’acqua. In molte zone, infatti, le risorse idriche a disposizione dipendono in modo cruciale dal disgelo primaverile dei ghiacciai montani: ne dipende il rifornimento idrico di circa la metà della popolazione umana. Questo disgelo provoca una regolata discesa a valle di enormi quantità di acqua che possono essere utilizzate da attività agricolo-pastorali, ma anche per bere, oppure per riempire invasi idrici che possano consentire di non soffrire più di tanto la siccità estiva. Il fatto che la massa dei ghiacciai diminuisca fa sì che anche la quantità di acqua che scende a valle – nella stagione calda in cui ce n’è più bisogno – sia minore, o vada addirittura a zero nel caso di scomparsa dei ghiacciai stessi.

In zone critiche tutto ciò potrà portare ad instabilità e migrazioni, ma anche in zone meno vulnerabili si potranno avere grossi problemi. Si pensi alle nostre Alpi. Come riempiremo i bacini che forniscono energia idroelettrica? Come tutto ciò impatterà sul turismo? Gli interrogativi riguardano anche noi, ma la fusione dei ghiacciai montani prelude a uno scenario molto più preoccupante, ad esempio, in Asia.

La regione dell’Hindu Kush himalayano è conosciuta come il “Terzo Polo” per le sue gigantesche masse di ghiaccio e neve, e le catene montuose che vi si connettono percorrono tutto il Sud e Sud-Est asiatico e comprendono rilievi in Afghanistan, Bangladesh, Bhutan, Cina, India, Myanmar, Nepal e Pakistan. Lo scenario della fusione dei ghiacciai potrebbe manifestarsi come rottura improvvisa dell’equilibrio – con i ghiacciai che si sgretolano anch’essi a causa della lubrificazione – ed emergere in tutta la sua ampiezza in tempi relativamente brevi, che non lasciano tempo alle società per riorganizzarsi e adattarsi. Aggiungiamo che i fiumi provenienti dall’Himalaya irrigano proprio l’India, le piane dell’Asia centrale e il sud-est asiatico, ovvero che – direttamente o indirettamente – sostentano 1,4 miliardi di persone.

Se la crisi finanziaria del 1929 bastò a dividere le nazioni e portarle alla seconda guerra mondiale, cosa ci porterebbe una rapida fusione dei ghiacciai dell’Himalaya? Uno scenario in cui le estese terre costantemente irrigate dai fiumi che scendono dalla catena montuosa asiatica rapidamente si trasformano in lande flagellate da un’alternanza di siccità e inondazioni – i ghiacciai regolano un costante afflusso di acqua – implica che centinaia di milioni di persone si troveranno prive di sostentamento e riferimenti produttivi secolari: se scattassero allora le stesse dinamiche socio-economiche che hanno condotto al secondo conflitto planetario, in una regione in cui quattro Stati – Cina, India, Pakistan e Russia – hanno armamenti atomici, abbiamo gli ingredienti della terza guerra mondiale.

È​ Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È​ un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.