Clima: hotspot Mediterraneo

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Clima: hotspot Mediterraneo

L’aumento della temperatura del nostro mare mina agricoltura e pesca. Il gioco però è più grande e riguarda l’identità e l’unità dell’Europa e una relazione costruttiva con il più naturale ambito di internazionalizzazione dell’economia italiana, l’Africa.

L’aumento della temperatura del nostro mare mina agricoltura e pesca. Il gioco però è più grande e riguarda l’identità e l’unità dell’Europa e una relazione costruttiva con il più naturale ambito di internazionalizzazione dell’economia italiana, l’Africa.

I cambiamenti climatici riguardano tutti, ma non tutti allo stesso modo. Nel caso dei due mondi a cui apparteniamo come Italia – quello europeo continentale e quello del bacino mediterraneo – cambiano completamente le carte in tavola. I climatologi prevedono un aumento di temperatura nel Mediterraneo più accentuato della media, e delle alterazioni nelle piogge: questo già è foriero di comprensibili disagi e conseguenze sull’agricoltura e sulla pesca. Ma limitarsi a prendere le misure di tali impatti diretti vuol dire non comprendere che è in gioco una posta cruciale: l’identità e l’unità dell’Europa e una relazione costruttiva con il più naturale ambito di internazionalizzazione dell’economia italiana, l’Africa.

Unità climatica

A guardare il planisfero ci si accorge che l’idea di Europa – come continente a sé stante – rappresenta un’anomalia. Usando i criteri di delimitazione dei continenti applicati per tutti gli altri, noi non dovremmo esistere: siamo solo una piccola appendice dell’Asia. Eppure, continuiamo a sentirci un continente a parte, anzi forse – con quel po’ di presunzione che una volta si chiamava eurocentrismo – ci sentiamo IL continente, il vecchio continente! Cosa ci distingue? Una certa unità culturale, persino fisionomica, un senso di comunità nella diversità.

Pochi si interrogano sulle radici di questa unità che non ha radici nell’isolamento del proprio territorio, ma qualcuno l’ha fatto: a cominciare da Jean Jacques Rousseau che – forse eccedendo nel determinismo – vedeva l’identità europea come un prodotto dell’eccezione climatica che ha benedetto l’Europa dalla fine dell’ultima glaciazione, circa 10.000 anni fa, quando ha preso avvio la rivoluzione agricola. Se Rousseau aveva ragione – e con criteri contemporanei possiamo confermare che ci aveva visto giusto – significa che il clima dell’Europa ha giocato un ruolo determinante nel forgiare la nostra identità e nel definire i nostri interessi.

Senonché, questo clima sta cambiando. Il suo attore protagonista, il dolce e stabilizzante anticiclone delle Azzorre – che un tempo i meteo televisivi menzionavano a ogni piè sospinto – appare sempre meno sull’Europa mediterranea e viene estromesso dagli anticicloni africani che sconfinano sempre più prepotentemente da noi. In pratica, cominciamo a condividere un certo tipo di clima con i paesi della sponda Sud del mediterraneo, mentre a Nord delle Alpi crescono altre modifiche che divaricano il clima mitteleuropeo dal nostro. Ma se concordiamo con Rousseau – il clima è un fattore determinante nel comporre interessi e identità dei popoli – non è solo una questione di piogge e temperature. In pratica, per l’Italia, significa che alla nostra identità europea inizia a sovrapporsi una comunione di interessi con chi condivide l’anticiclone africano, mentre ci distanziamo da alcune prospettive che prima ci ancoravano saldamente all’Europa.

Integrazione a rischio

Non è solo una questione di venti e piogge e nemmeno dottamente antropologica: si tratta di economia, commercio, e geopolitica. Ad esempio, con il riscaldamento dell’Artico e il restringimento dei ghiacci si stanno liberando delle rotte commerciali marittime polari – i mitici passaggi a Nord Est e a Nord Ovest – che rischiano di privare i nostri porti di moltissimo traffico. Dovremo fare i conti con la migrazione a Nord di alcuni vitigni che per noi sono identitari (e una gran bella fonte di proventi). Se non stiamo attenti, questo rischia di spaccare l’integrazione europea in due gruppi con interessi divergenti. E non è fantascientifico futuro: sulla mappa, la frontiera di una certa incomprensione indifferente alle migrazioni – del “non sono fatti nostri, sbrigatevela voi” – coincide quasi perfettamente con le regioni in cui si fermano le incursioni degli anticicloni africani.

Ma non ci sono solo le sottrazioni, ci sono anche le aggiunte. Qualcosa perdiamo perché migra a Nord, ma qualcosa guadagniamo in provenienza dal Sud, condividendola con altri popoli in una nuova comunità di interessi. Ad esempio, la comunità “forestale” – coloro che per passione o denaro tutelano la vegetazione – sta sperimentando un’integrazione e un’intensificazione della collaborazione fra le due sponde del mediterraneo. C’è sempre stata una cooperazione forestale globale per l’ecosistema globale ma, in questo nuovo club panmediterraneo, si sta intensificando; e non è solo frutto di una crescente consapevolezza ecologica: ci sono miliardi in ballo, perché la vegetazione originaria della sponda meridionale del mare nostrum è l’unica che potrà permanere ​produttiva sulla sponda nord entro pochi anni e quindi salvare la funzionalità di intere economie nazionali.

Insomma, si va a un nuovo assetto med-africano divaricato dal core-business (dall’identità, dall’economia, dalla geopolitica) europeo? Solo se siamo folli al punto di non accorgerci che sono più le aggiunte che le sottrazioni. Non dobbiamo perdere l’identità e la solidarietà europea solo perché entriamo anche in un nuovo club, che oltretutto è un ambito naturale di co-sviluppo costruttivo per la nostra impresa: dobbiamo aggiungervi il nuovo, cogliendo le opportunità. L’Italia ha una missione che forse non ha ben compreso: stesa come un ponte sul Mediterraneo, sempre più compartecipe di due poli di interessi che potrebbero essere in competizione, o persino andare allo scontro, può e deve farsi il centro e l’arbitro di un incontro. Abbiamo solo da guadagnarci. Soprattutto noi.

È​ Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È​ un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.