L’uscita degli Stati Unit dall’accordo di Parigi apre nuovi scenari geopolitici, ambientali ed economici. Cinque punti chiave per capire cosa cambierà.
L’uscita degli Stati Unit dall’accordo di Parigi apre nuovi scenari geopolitici, ambientali ed economici. Cinque punti chiave per capire cosa cambierà riguardo al clima.
La decisione del presidente americano Donald Trump di uscire dall’accordo sul clima siglato a Parigi nel 2015 ha, di fatto, tre conseguenze immediate: un’accelerazione dell’isolamento degli Stati Uniti, uno scenario economico più instabile, il sicuro rallentamento della corsa verso la diminuzione delle emissioni serra. Barack Obama, che aveva firmato l’accordo di Parigi, si era impegnato a ridurre entro il 2025 i gas serra del 26-28% rispetto ai livelli del 2005.
Questo significa che almeno il 5% dell’obiettivo da raggiungere verrebbe meno dato che gli Stati Uniti oggi sono responsabili di un quinto delle emissioni globali di CO2. Ma gli impatti sul clima sono tutti da misurare e le domande aperte dopo questa decisione della Casa Bianca restano molte. Grammenos Mastrojeni, coordinatore per l’eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo e collaboratore del Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore, ha definto per Changes Unipolcinque punti chiave in un periodo in cui le alterazioni climatiche possono essere un pericolo per la pace. Oggi sono 79 i conflitti censiti nel mondo aventi come concause il clima e i suoi cambiamenti.
Non so se sarebbe realistico o saggio definire l’attuale periodo come una guerra mondiale strisciante, ma è vero che la nostra epoca presenta pericolosi fattori di instabilità. In realtà, cause ambientali e non sono indistinguibili: alla radice la spinta viene dalla gigantesca iniquità nella distribuzione delle ricchezze, che è anche la vera causa profonda del degrado ambientale. In un mondo polarizzato fra ricchi e poveri, i primi sono spinti a depredare l’ambiente per rimanere “competitivi”, i poveri sono costretti a farlo perché l’urgenza di oggi non consente di preoccuparsi del domani. In questo quadro, vi sono zone dove la povertà socio-economica si somma e interagisce con il degrado ambientale che essa stessa promuove e i due si amplificano a vicenda in un ciclo cumulativo che purtroppo sta crescendo e si sta ampliando. Ci sono 79 aree in cui constatiamo questa dinamica, molte delle quali sono anche hotspot di terrorismo e migrazioni forzate. Il timore è che le proiezioni puntano a una possibile saldatura globale di queste aree di fragilità intorno al 2030 se non corriamo ai ripari: lo scenario sarebbe allora quello dell’instabilità sistemica.
La decisione degli Usa di uscire dal trattato di Parigi ha sancito l’inedita leadership della Cina alla testa delle nazioni che vogliono frenare il surriscaldamento mondiale. Mi pare troppo presto per incoronare un leader. E l’Europa? Non siamo secondi a nessuno su questo fronte. E poi, a volte il pubblico è più realista del re e ascrive intenzioni di potere ai governi perché si crede che questa sia la vera legge della diplomazia. In realtà – anche a rischio di perdere un po’ di thrill e romance da intrigo internazionale – si sta solo cercando di correre ai ripari tutti assieme e il più in fretta possibile, tentando di tenere in squadra il maggior numero possibile di attori – oltre agli Stati, il privato e il terzo settore – ciascuno secondo il contributo di cui è capace. Che l’uno o l’altro partner abbia ripensamenti o esitazioni più o meno momentanei era realisticamente da mettere in conto: semplicemente perché tutti ormai riconoscono che rimediare al clima impazzito è più un’opportunità di crescita per l’economia che un freno, ma per ceri settori significa autorivoltarsi come un calzino; evidente che ci sarebbero state delle resistenze.
C’è una convergenza di forze economiche- che avevano già iniziato a investire sul potenziale di crescita dato dal greening dell’economia, stimato dal Forum di Davos a un 0,8% del PIL mondiale al 2050 – e di forze sociali, che avevano avviato un passaggio da uno stile di vita fondato sulla quantità a uno più moderno che cerca la qualità. Questa inedita fusione – in un certo senso, il Forum Di Davos e il Social Forum di Porto Alegre che si danno la mano – è rispecchiata livello politico in diverse maniere, comprese le Amministrazioni “dissidenti” negli USA. Intanto, questa dinamica esiste dappertutto: negli USA è divenuta più visibile data la particolare situazione ma non ne farei un problema di scelte americane. Molto più interessante è notare che una potente spinta al rinnovamento viene dappertutto dai territori concreti, perché è lì che si toccano con mano i benefici di un’economia più verde che spariglia le carte: non è vero che il greening frena lo sviluppo e la ricchezza, anzi le rilancia. Ma gli apparati centrali che da un secolo applicano una dottrina economica diversa sono prudenti, naturalmente resistono a un cambio così radicale di prospettiva: i territori la comprendono meglio. Anche in Italia – Paese che sostiene l’Accordo di Parigi – le fughe verdi in avanti di certi territori fanno da pungolo per migliori scelte nazionali.
Adesso sono in molti a chiedersi che senso avrebbe per gli altri Paesi firmatari dell’accordo di Parigi continuare gli sforzi per la riduzione delle emissioni. Per esempio, l’India potrebbe essere tentata a rivedere i suoi progetti. Ma la vera domanda che ci dovremmo fare è un’altra: che senso ha per gli Stati Uniti tirarsi fuori quando è ormai chiaro che la trasformazione verde dell’economia prelude a un ciclo di crescita strutturale? Non vedo la corsa al ribasso verso ricette economiche che escludono da un’ondata di innovazione tecnologica e di crescita. Nel caso specifico dell’India – poi – il problema non sono mai stati gli Stati Uniti ma reggere il passo con la Cina; e se quest’ultima alza gli standard si aprono maggiori spazi per farlo anche per l’India. Vedrei piuttosto uno scenario di rincorsa fra i due giganti asiatici verso i nuovi mercati avanzati del sostenibile, sia per un riordino dei propri territori che guardando ai mercati internazionali.
Il Presidente Trump è espressione di un elettorato che vede il clima come un problema minore. Come politico deve però anche mediare con tutte quelle forze interne e internazionali che invece – sono volutamente ripetitivo, perché è fondamentale capire questo punto – considerano che combatterlo sia un’opportunità di crescita e progresso. Di fatto, secondo l’accordo di Parigi, fino al 2020 Trump non ha possibilità di uscire e nel 2020 ci saranno le elezioni. C’è chi dice che la sua mossa sia solo psicologica e la sensazione è che Trump stia provando a posticipare l’inevitabile, creando un clima che incoraggia le società a non adeguarsi. Non conosco il suo pensiero personale, ma sospetto che l’incertezza pratica della sua decisione e i suoi evidenti limiti d’impatto rappresentino uno spazio di mediazione consapevolmente cercato e voluto dalla Casa Bianca. Insomma e in breve: il punto è tenuto fermo davanti ai suoi elettori, ma gli spazi di scelta per chi la pensa diversamente rimangono tutto sommato aperti.
È Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.
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