Siamo pronti alla prossima pandemia?

Lo scorso 14 maggio, in una giornata salutata come storica, la commissione dell’Assemblea Mondiale della Sanità, organo legislativo dell’Organizzazione Mondiale della
C'è una stanchezza che non si risolve con una notte di sonno. Una fatica che si annida sotto la pelle, silenziosa, e che resiste anche quando ci sforziamo di essere efficienti, performanti, presenti (almeno online). Deriva dal nostro rapporto con la tecnologia e, spesso, la ignoriamo.
Ignoriamo quasi sempre la stanchezza di chi vive costantemente connesso, immerso in un flusso continuo di stimoli, notifiche e richieste. Almeno fino a quando il corpo non si ferma. O ci costringe a farlo. Come psicologa, mi capita spesso di accompagnare persone che lavorano nel digitale, creativi, manager e liberi professionisti, nel riconoscere il proprio affaticamento non solo come un effetto collaterale del lavoro, ma come un messaggio profondo: un segnale che qualcosa nel ritmo quotidiano è disallineato rispetto ai propri bisogni reali.
Un esempio concreto è Marta, uso un nome di fantasia, consulente marketing freelance che seguo da qualche mese. Quando ci siamo conosciute, si definiva “esausta ma funzionante”. Lavorava da casa, si prendeva pochissime pause, passava ore davanti allo schermo e si sentiva in colpa ogni volta che provava a rallentare. Aveva mal di testa frequenti, difficoltà digestive e un’insonnia che attribuiva allo stress. «So che dovrei spegnere prima il computer — mi diceva — ma mi sento in trappola, come se il lavoro non finisse mai».
Nel tempo, abbiamo lavorato insieme per decifrare quella stanchezza come un linguaggio del corpo. Non un nemico da combattere, ma una guida da ascoltare. Marta ha cominciato a concedersi momenti di vera disconnessione, a ridurre le ore di esposizione agli schermi e a reimparare a distinguere tra urgenze esterne e bisogni interni. La trasformazione non è stata immediata, ma oggi riconosce la stanchezza prima che diventi malessere, e ha imparato a rispettare i suoi limiti senza sentirsi meno “professionale”.
Uno studio pubblicato nel 2025 su Discover Mental Health, intitolato Digital detox: exploring the impact of cybersecurity fatigue on employee productivity and mental health, ha esaminato come la fatica mentale influenzi produttività e salute mentale dei dipendenti in settori con una forte pressione come IT, finanza, sanità ed educazione. Utilizzando una metodologia quantitativa, su 351 persone, lo studio ha rilevato che l’affaticamento da cybersicurezza è significativamente associato a burnout, ridotta produttività e aumento di stress e ansia. L’affaticamento da cybersicurezza si riferisce a uno stato di esaurimento mentale ed emotivo che emerge dalla costante richiesta di porre attenzione alla sicurezza digitale. I risultati sottolineano l’importanza di strategie come il digital detox e il supporto alla salute mentale per mitigare questi effetti negativi.
L’uso continuo delle tecnologie digitali è spesso associato a un aumento del carico cognitivo e della fatica mentale, specialmente in contesti di lavoro da remoto. In particolare, l’alternanza continua tra compiti, la pressione delle notifiche e l’assenza di confini chiari tra lavoro e vita privata contribuiscono a generare uno stato di allerta costante che può cronicizzarsi.
Il corpo, in questo contesto, finisce per diventare un’entità trascurata: qualcosa da “silenziare” per poter restare produttivi. Ma questa dissociazione ha un costo. Quando ignoriamo troppo a lungo i segnali corporei come tensioni, mal di schiena, tachicardia e difficoltà di concentrazione, il corpo trova altri modi per farsi sentire: spesso attraverso sintomi psicosomatici che ci obbligano a fermarci.
Nel nostro tempo, iperconnesso e iperstimolato, il corpo può tornare a essere una bussola. Non un ostacolo alla produttività, ma un alleato nella ricerca di equilibrio. Imparare ad ascoltarlo significa anche imparare a mettere confini, a dire di no, a riconoscere che il riposo non è una perdita di tempo, ma un gesto di cura.
Il filosofo Byung-Chul Han, nel suo saggio La società della stanchezza, scrive di come oggi ciascuno sia padrone e schiavo di sé stesso. La libertà si trasforma in costrizione. È un concetto che trovo particolarmente calzante per descrivere molte delle persone che incontro: professionisti apparentemente liberi, ma interiormente imprigionati da un senso del dovere costante, alimentato anche dalla cultura del “sempre connessi”.
Riconsiderare il ruolo del corpo nel nostro lavoro quotidiano, significa creare spazi per tornare a sentire. Bastano piccoli gesti: alzarsi ogni ora, respirare profondamente, uscire a camminare senza telefono, chiudere il computer quando il corpo chiede tregua. Non si tratta di fare di meno, ma di farlo meglio. Di lavorare in modo più sostenibile, umano, presente.
La stanchezza, quando non viene silenziata, può diventare una maestra. Ci mostra che abbiamo bisogno di tornare a casa, dentro noi stessi. E che anche nel mondo digitale, il primo passo per riconnetterci a volte è disconnetterci.