Perché facciamo quello che facciamo?
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Robert Sapolsky, celebre neuroscienziato e divulgatore, nel suo libro Behave: The Biology of Humans at Our Best and Worst, si pone una domanda ambiziosa: perché facciamo quello ch
Quasi il 70% delle canzoni dell’edizione 2025 è stato scritto da 11 autori in varie collaborazioni incrociate. Perché le canzonette sono diventate una catena di montaggio
La settantacinquesima edizione del Festival di Sanremo fa parlare di sé più per le polemiche che per la musica. E c’è un dato che ci dice molto riguardo a ciò che è diventata oggi la kermesse musicale più amata dagli italiani, giunta alla sua settantacinquesima edizione. Scorrendo la lista delle canzoni dell’edizione 2025, si scopre che quasi il 70% è stato scritto da un totale di soli 11 autori, in varie collaborazioni incrociate. Leader incontrastata di quello che è un vero e proprio “trust” è Federica Abbate, nipote d’arte – lo zio Gaspare Gabriele fu l’autore di È l’uomo per me di Mina e scrisse le parole dell’evergreen Mambo italiano – e re(gina) Mida del pop tricolore degli ultimi dieci anni: il suo nome appare infatti in calce a ben sette canzoni. Seguono a ruota nomi come quelli di Davide Simonetta, Davide Petrella, Jacopo Ettorre e persino di qualcuno, come Blanco (tre brani suoi in gara), che sul palco dell’Ariston ha cantato in prima persona (una volta vincendo, nel 2022, e l’altra prendendo a calci le fioriere).
La tendenza a concentrare in un numero ristretto di mani i credit del canzoniere sanremese non è certo nuova, e si era già fatta evidente nel periodo di reggenza di Amadeus. Quest’anno, con il passaggio della direzione artistica a Carlo Conti, la questione è diventata macroscopica. Tanto che persino il Codacons ha presentato un esposto, anche se non si capisce bene a tutela di che cosa. Naturalmente c’è la possibilità che questi siano semplicemente gli autori più bravi sulla piazza – per il talento e il fiuto commerciale di Abbate, del resto, parlano i risultati ottenuti fin qua – ma certamente una tale concentrazione autoriale non si era mai vista.
La storia del Festival è fatta di grandi parolieri e musicisti che ricorrevano, a volte anche nella stessa edizione: da Mogol a Franco Migliacci, da Gianni Bella a Giancarlo Bigazzi, da Pino Donaggio a Toto Cutugno. Ma il fenomeno degli stessi autori prendi tutto è tipico di questi anni. Basta andare a spulciare la lista di canzoni del 2015, senza spingersi indietro fino a Nilla Pizzi: dieci anni fa, l’unico nome ad apparire più di una vola era quello di Francesco “Kekko” Silvestre dei Modà (che quest’anno firma una delle due sole canzoni con un unico autore, l’altra è quella autografa di Brunori Sas).
Secondo Carlo Conti, il fatto che lo stesso pool ristretto sia dietro due terzi delle canzoni indica “un grande fermento creativo”, ma viene da pensare che in realtà sia una manifestazione dell’esatto opposto. E infatti, come chiunque abbia seguito almeno una serata del Festival negli ultimi anni può confermare, i brani sanremesi si assomigliano un po’ tutti. Con il risultato che si confondono nella memoria, tanto che è arduo scovare un pezzo che sia stato capace di diventare, negli ultimi anni, un successo universale o quanto meno un tormentone (forse l’unica eccezione alla regola in tempi recenti è stata Soldi di Mahmood, che vinse nel 2019).
Se si avverte una certa aria ripetitiva da catena di montaggio è perché, in fondo, è proprio questo il meccanismo che presiede alla creazione della tipica canzone sanremese contemporanea. Una volta l’occhio (o meglio, l’orecchio) era rivolto a ciò che poteva funzionare in radio, oggi al centro c’è lo streaming. E questo spiega la prevalenza di canzoni brevi, con ganci melodici immediati per evitare lo skip, plasmate sul format musicale preferito dagli utilizzatori più giovani di Spotify e delle altre piattaforme, cioè quelli che con le loro abitudini compulsive di ascolto fanno i grandi numeri. E spiega anche perché convenga avere il proprio nome sparso su più canzoni: le royalty che provengono dallo streaming non sono alte in senso assoluto, ma se si azzecca il jackpot o più di uno (e non c’è dubbio che almeno nel periodo immediatamente successivo al Festival diversi dei brani sanremesi macinino ascolti notevoli) si può mettere assieme un discreto tesoretto.
L’omogeneità di fondo è figlia forse più dei gusti dell’ascoltatore medio odierno ai quali andare incontro che della ripetitività degli autori. Semplicemente, ciò che funziona oggi è questo. Un genere/non genere che mescola ritmi dance, cassa dritta, atmosfere latine, urban r&b privo, tuttavia, della fisicità tipica del soul. E come sempre, un po’ di immancabile melodia all’italiana. Per quanto riguarda i testi, si cerca costantemente “l’effetto meme” con frasi che spesso sembrano generate da un’intelligenza artificiale che va a dragare nel linguaggio da social, ma in generale l’aspetto lirico (ammesso e non concesso che i testi si capiscano, tra abuso di autotune e stile canoro spesso volutamente piatto e monocorde) non è esattamente ciò che fa la differenza.
Ripensando al passato, non è che anche in epoche più gloriose il Festival brillasse per eclettismo e diversità. A dominare in altri tempi era il bel canto italiano e la classica dichiarazione d’amore, enfatica e orchestrata, e anche in quel caso si perdeva memoria di tre quarti dei brani già una settimana dopo la fine di Sanremo. Ma c’erano pur sempre le eccezioni alla regola: cani sciolti, outsider, sperimentatori capitati lì quasi per caso, eccentrici di vario tipo che portavano sul palco dell’Ariston canzoni capaci di passare alla storia, anche se magari in tempo reale finivano nelle retrovie della classifica finale. Oggi le probabilità di ascoltare per sbaglio una Vita spericolata, una Gianna, una Vacanze romane o una Almeno tu nell’universo sono praticamente inesistenti. Forse anche perché a scrivere i brani sono sempre gli stessi.