Veicoli che collaborano
Le nostre vetture sono sempre più connesse, dispongono di un collegamento con la rete mobile con la quale, anche indipendentemente dal guidatore, possono scambiare dati ed informa
Mark Zuckerberg ha comunicato lo stop ai programmi di Meta sul fact-checking. Quali saranno le conseguenze di questa scelta per la lotta alla disinformazione. Changes ne ha parlato con Alberto Puliafito.
Oltre cento milioni di dollari di investimenti, quarantamila moderatori assunti e una rete mondiale di organizzazioni di fact-checking indipendenti lanciata. Sono questi i numeri con cui dal 2016 Meta (la holding che controlla Facebook, Instagram, Threads e Whatsapp) ha concretizzato il suo impegno contro le fake news. Una missione partita all’indomani della prima elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ma che oggi conosce un netto stop. A decretarlo è stato lo stesso Mark Zuckerberg in un video postato sui suoi social.
«È tempo di tornare alle nostre radici riguardo la libertà di espressione. Stiamo sostituendo i fact checker con community notes, semplificando le nostre normative e concentrandoci sulla riduzione degli errori. Non vedo l’ora che arrivi il prossimo capitolo». Questo è il testo di accompagnamento del video con cui il fondatore e amministratore delegato di Meta ha annunciato la chiusura del reparto aziendale dedicato alla lotta contro le notizie false. Un addio che avverrà (per ora) solo negli Stati Uniti e che prevede un drastico cambio di rotta nelle modalità con cui le piattaforme della galassia Meta osteggiavano (o cercavano di farlo) la diffusione della disinformazione. Addio al controllo da parte di terzi dei contenuti e via libera alle cosiddette “community notes”, già usate sul social X di Elon Musk.
Aldilà del significato politico (pur evidente e importante), la nuova strategia di Meta volta pagina rispetto alle modalità di fact-checking in voga sino ad oggi e che prevede una stretta collaborazione con i fact-checker indipendenti certificati dall’IFCN (in Italia Pagella Politica diretta da Giovanni Zagni e Open di Enrico Mentana). Sono queste organizzazioni che, anche grazie all’AI, individuano le informazioni errate (sfruttando anche le segnalazioni degli utenti), indagano le fonti e qualora rilevino contenuti falsi, pubblicano una etichetta dedicata, per segnalare il contenuto come falso, mentre l’algoritmo di Meta ne riduce la visibilità.
Una metodologia che presto, come visto, farà spazio alle community notes che, come spiega a Changes Alberto Puliafito, giornalista cofondatore e direttore di Slow News, «permettono agli utenti di aggiungere note ai post per fornire contesto o correggere informazioni errate. Il sistema cerca di identificare un consenso tra i collaboratori con opinioni diverse per mostrare solo le note considerate più utili. Tuttavia, come osservato da molti utenti, il sistema è ancora rudimentale e spesso inefficace: molte note sono duplicazioni, non necessarie o scritte senza fonti affidabili. Senza una gerarchia o un controllo adeguato, rischia di diventare tutto rumoroso e dispersivo».
Il piano lanciato nel 2016 da Mark Zuckerberg ha rappresentato una risposta alle tante accuse che da più parti vedevano i social network come un vero e proprio motore propulsivo nella diffusione delle notizie false. Il lancio della strategia di fact-checking, infatti, seguiva di qualche mese la prima campagna elettorale con Donald Trump protagonista, quella del testa a testa contro Hilary Clinton. Prima di chiederci, però, cosa cambierà domani in virtù delle decisioni di Meta, occorre capire se questo sistema di fact-checking sin ora abbia o meno funzionato. «Se l’obiettivo era ridurre la disinformazione, gli studi mostrano che non ha avuto un grande impatto», sottolinea Puliafito. «Va però chiarito che il fact-checking di Meta non riguardava censura o moderazione, ma si limitava all’applicazione di un’etichetta». Per quel che riguarda lo scenario futuro, secondo Puliafito, il rischio è che «il passaggio alle Community notes sposti il focus su un sistema meno controllato e potenzialmente caotico. Potrebbe essere questa una mossa strategica per ridurre costi e responsabilità, ma non cambia il fatto che il vero problema è strutturale: il modello di business dei social, che alimenta polarizzazione e la cosiddetta disinformazione». È lo stesso modo di funzionare dei social network, in sostanza, secondo Puliafito, ad essere il più prezioso alleato di chi vuole inquinare il dibattito con la diffusione di notizie false. Sono i social che tendono alla massimizzazione del traffico, dunque, a rappresentare il più potente spin per questi contenuti. Come ha scritto il professore Walter Quattrociocchi su Linkedin in un post rilanciato da un articolo della newsletter The Slow Journalist, “Le piattaforme social non sono progettate per essere strumenti di informazione, ma macchine per l’intrattenimento. Premiano ciò che cattura l’attenzione, che emoziona, che divide, perché è questo che genera engagement. Non è un sistema costruito per garantire la qualità dell’informazione, ma per massimizzare il tempo che le persone trascorrono online”.
“I fact-checker sono stati troppo politicamente di parte e hanno distrutto più fiducia di quanta ne abbiano creata”, trasformando “un movimento nato per essere più inclusivi” in un mezzo “sempre più utilizzato per mettere a tacere le opinioni ed escludere le persone con idee diverse”. Nelle motivazioni addotte da Mark Zuckerberg per dire addio al fact-checking da parte di terzi, riemerge prepotente una vecchia e mai sopita polemica: quella del dualismo tra il controllo della veridicità delle informazioni e la libertà d’espressione. Il riequilibrio tra questi due valori è un obiettivo difficile, ma importante da raggiungere. Per farlo, sempre secondo Alberto Puliafito «occorre puntare sull’“educazione” per abilitare le persone a comprendere come funzionano i social e come le informazioni si diffondono, sulla promozione di un “giornalismo di qualità” che produca contenuti verificati e verificabili, basati sul metodo della verifica e accessibili a tutti e sulla “negazione della censura”, per evitare soluzioni che limitino arbitrariamente la libertà di espressione». La sfida è dunque composita, multidimensionale, profonda e tutt’altro che semplice. L’impegno dev’essere collettivo in grado di coinvolgere, come conclude Puliafito, «piattaforme, giornalisti, persone. Anche se una soluzione definitiva, purtroppo, ancora non penso esista».