Siamo tutti Hater

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Siamo tutti Hater

L’odio verbale digitale è diventato un sentimento globale che, al contrario di quello che si concretizza con azioni sembra accettato universalmente. Le parole non hanno più valore?

Nella nostra antologia di emozioni, l’odio domina incontrastato per complessità. Questo stato emotivo di persistente, grave e pura avversione verso ciò che qualcuno o qualcosa rappresenta è, difatti, a tal punto complesso da essere tutt’al più definibile solo per negazione: indeterminato e decontestualizzato, al contrario della rabbia; duraturo e illimitato, al contrario dell’amore.

Da buon manicheista che non accetta zone grigie, l’odio costruisce un’immagine stilizzata e oltranzista dell’altro, colorandola di bianco e di nero; trasforma, semplifica e riduce il diverso a nemico, senza dare alcun spazio al dubbio, al dialogo e all’eccezione. Da qui, un desiderio violento di distruzione, appagabile non tanto con l’inflizione del dolore – che sarebbe limitante, rispetto alla pienezza del fiotto d’origine – ma con la realizzazione o, “per fortuna” più frequentemente, con la verbalizzazione del male.

Non occorre essere esperti riguardo all’euristica del fenomeno per notare che l’odio ha una natura non solo affettiva, ma discorsiva; che la sua espressione, cioè, rappresenti un fenomeno non accessorio, ma costitutivo.

Il linguaggio, oltre a una funzione descrittiva, possiede una dimensione performativa: con le parole noi individui non ci limitiamo a delineare le realtà, ma la trasformiamo, la modifichiamo, agiamo sulle sue dinamiche e ne gestiamo le complessità. E ci riusciamo soprattutto quando odiamo. Parlando con odio – più che con qualsiasi altra emozione – siamo capaci di mutare il corso di un’esistenza: perché offese, denigrazioni, insulti, colpendo l’altro (dal singolo alla comunità), possono a tal punto sedimentarsi da diffondere e consolidare nel lungo termine opinioni e convinzioni; possono a tal punto radicarsi nel tessuto sociale da entrare a far parte a tutti gli effetti della grammatica della nostra esistenza.

La storia dell’odio ci racconta di un’umanità che ha frequentemente odiato non in virtù di qualcosa che è stato fatto, ma di qualcosa che si è; di un’umanità che non ha mirato al cambiamento di un comportamento specifico di qualcuno, in un dato momento storico, ma ha puntato a distruggere un nemico considerato negativo in quanto tale, nella sua natura.

Siamo portati a pensare che l’esperienza, andando a braccetto con l’errore, sia madre della razionalità: ma l’era digitale non può che smentirci. Perché se è pur vero (e ci sarebbero dubbi persino al riguardo) che si è conclusa la caccia alle streghe, è purtroppo innegabile che le tastiere abbiano dato sfogo a questa modalità di relazione più che in qualsiasi altro momento storico.

Tutti, oggi, possono odiare, dichiarandolo bulimicamente; possono indirizzare – per poi irrimediabilmente diffondere e far radicare – il male. Il tutto è aggravato dal grande equivoco per cui alla dematerializzazione della realtà, provocata dalla virtualizzazione dell’esperienza, coinciderebbe una diluizione delle emozioni espresse: ma se questo può essere vero per l’amore, dichiarato con la semplificazione aberrante di frasi preconfezionate e immagini inserite con l’automatismo di un click, non vale per l’odio che, anzi, trova nel digitale non soltanto il più grande spazio di esistenza mai provato ma la più ampia realizzazione e compiutezza. Le parole d’odio oggi – serpeggiando soprattutto nei social – fluiscono indisturbate, superando il virtuale e colpendo (spesso a morte) il reale.

L’odio verbale è diventato un sentimento globale che – al contrario di quello concretizzato mediante azioni – sembra accettato universalmente. È senz’altro vero che i social sono strumenti di democrazia; me è altrettanto indubbio che oramai sono democraticamente piattaforme dove chiunque si fa portatore di una qualche verità sostanziata da violenza verbale. C’è un’unica consolazione: se la parola non ha più valore, anche la vita da cui parte la perde; d’altronde, citando Umberto Eco, «ci vuole sempre qualcuno da odiare per sentirsi giustificati nella propria miseria».

Ricercatrice su temi antropologici, storici e sociali, ha indirizzato i suoi studi sui cambiamenti epistemologici del presente, specializzandosi nell’ambito delle innovazioni digitali, della sociologia e della sostenibilità. Ha proseguito la sua attività di ricerca per aziende private, governi e organizzazioni multilaterali, supportando strategie di investimento in Nfts e in nuove tecnologie ai fini di un potenziamento di soft power; o guidando la riflessione sull’utilizzo degli spazi e delle leve del Metaverso per scopi politici e geopolitici. Ha fornito consulenza a marchi di lusso e di consumo, thought leaders e istituzioni finanziarie su come integrare la sostenibilità nei loro sistemi e su come creare e inquadrare value propositions relative al futuro del lavoro. Lavora come ricercatrice per il Future Food Institute, una fondazione no-profit che sta stimolando un cambiamento esponenziale nel sistema alimentare globale.