Invenzione auto-tune: come un effetto ha cambiato la musica pop

Nel 1997 nasceva Auto‑Tune, un software che ha rivoluzionato per sempre il modo di fare (e ascoltare) musica. Nato per sistemare al volo le stonature, è diventato in poco tempo
Da qualche mese le piattaforme digitali puntano sul pagamento e l’autenticazione. Due cambiamenti in apparenza lievi ma destinati a modificare per sempre questi media. Qual è l’impatto sull’utilizzo e sugli utenti.
Per ragioni di costo e di sicurezza, i social media puntano sempre più su pagamento e autenticazione. Due mosse che preannunciano una rivoluzione copernicana dall’esito incerto per le piattaforme, ma potenzialmente stravolgente per gli utenti. Perché tocca i fili scoperti della viralità, quel meccanismo emotivo e impulsivo che ha alimentato la crescita esponenziale dei social media.
Nell’attesa che l’operazione si compia, conviene concentrarsi sugli utenti piuttosto che su speculazioni sui modelli di business. Due frasi comuni, «Mettiamo un like, tanto non costa nulla» e «Se ha un profilo anonimo non dovrebbe avere il diritto di commentare», rivelano infatti le nuove direttrici del cambiamento: aggredire l’anonimato social e la gratuità, due pilastri impliciti dell’esperienza digitale.
L’anonimato online ha storicamente permesso agli utenti di utilizzare pseudonimi, immagini di fantasia e profili non riconoscibili. Uno strumento pensato per tutelare la libertà di espressione — soprattutto in contesti repressivi o per soggetti vulnerabili — ma che è stato usato anche per diffondere odio, fake news e disinformazione.
Nel tempo, le piattaforme hanno tollerato questo sistema in nome della online privacy, ma i benefici concreti sono stati spesso limitati. Al contrario, sono emersi rischi: utenti che si nascondono dietro l’anonimato per manipolare, offendere, disinformare.
Certo non si possono imputare all’anonimato le azioni di disinformazione, comuni ad ogni epoca umana, realizzate da soggetti professionisti dell’informazione e ben sfoggiate durante la Guerra Fredda, come descritto da Thomas Rid nel libro Misure attive (Luiss University Press, 2022).
I danni oggi più impattanti sulla conoscenza sembrano infatti provenire dai singoli utenti che sfruttano l’anonimato offerto dai social media.
E cosa potrebbe cambiare per questi ultimi, con l’obbligo di accedere ad una piattaforma con la carta d’identità (o magari lo SPID…) o di dare il numero della propria carta di credito per pagare un click o un like, o il danno per un’offesa?
Meta ha già introdotto forme di autenticazione per gli account verificati, mentre X (ex Twitter) ha sperimentato pagamenti per determinati tipi di contenuti o interazioni, riducendo l’impatto degli account anonimi. Nel frattempo, il Digital Services Act dell’Unione Europea ha posto nuove regole per la trasparenza degli algoritmi e la tracciabilità degli utenti, indicando la direzione verso un’identità digitale sempre più verificata.
L’epoca della gratuità assoluta, cantata da Bill Gates nel suo celebre articolo Content is King (1996), sembra avviarsi al tramonto. Allora il web rappresentava un’utopia partecipativa: chiunque, senza barriere economiche, poteva contribuire alla costruzione del sapere collettivo.
Ma oggi la realtà è diversa. I costi sono aumentati – a causa di inflazione, energia, manutenzione dei server – e le piattaforme devono razionalizzare le proprie strutture. La gratuità non è più sostenibile.
Cosa accadrebbe se diventasse necessario pagare per mettere un like, per pubblicare un contenuto, o anche solo per mantenere attivo un profilo? È uno scenario che non è più soltanto un’ipotesi: alcune piattaforme lo stanno già testando. La logica è semplice: monetizzare il comportamento online e, allo stesso tempo, limitare abusi e uso compulsivo.
L’ascesa di questi nuovi modelli impone una riflessione anche sui diritti digitali, a partire dal diritto all’oblio. Se tutto è tracciabile e i profili sono certificati, quanto controllo avranno gli utenti sulle informazioni che li riguardano? E quanto sarà possibile cancellare contenuti, opinioni o commenti?
La social privacy non è più solo una questione di impostazioni o consensi, ma si lega strettamente all’architettura delle piattaforme stesse, che chiedono oggi più dati, più autenticazione, più permanenza. L’equilibrio tra trasparenza e diritto a scomparire si fa sempre più sottile.
Con ogni click che potrebbe costare un centesimo e ogni profilo obbligato a essere riconoscibile tramite SPID, carta d’identità o carta di credito, si prospetta un futuro in cui l’identità online sarà certificata e tracciata. Questo scenario porta con sé sfide etiche: chi garantisce la libertà di espressione? Come evitare che la trasparenza diventi sorveglianza?
C’è chi vede in questo passaggio una svolta positiva: un uso più razionale e meno impulsivo dei social media. La fine dell’anonimato e la richiesta di pagare anche solo un centesimo per ogni interazione potrebbero infatti funzionare da inibitori comportamentali, riducendo fake news e linguaggio tossico.
Ma c’è anche un rischio: la fine dell’accesso universale. Chi non potrà (o non vorrà) pagare, potrebbe trovarsi escluso dalla partecipazione pubblica, relegato ai margini di una nuova gerarchia digitale.
Stiamo entrando in una nuova era dei social media, dove la viralità emotiva lascia spazio a regole più cognitive, più razionali. Il prezzo da pagare in senso letterale e simbolico – sarà la parsimonia, la riflessività e la responsabilità.
Una rivoluzione ancora in corso, ma i primi segnali sono già realtà: X che propone l’abbonamento per ridurre spam e bot, Meta che chiede il pagamento per esperienze “senza pubblicità”, e l’Europa che chiede più identità digitale e meno opacità. Il futuro dell’identità online non è un’ipotesi. È già cominciato.
*Articolo pubblicato il 24 maggio 2023 e sottoposto a successive revisioni