Accendiamo la luce sul futuro
La serie di fantascienza Star Trek è ambientata nell’anno 2264. Gli esseri umani viaggiano nella galassia insieme agli alieni, aiutati da computer, propulsione più veloce d
Siamo entrati nella terza era di Internet dove l’acquisto di un bene non è più lineare. Produrre cose belle e utili è solo il primo passo per essere competitivi.
Nel gennaio del 1996 Bill Gates pubblicò sul sito Microsoft un brevissimo saggio dal titolo Content is King. Il fondatore di Microsoft iniziò il suo scritto in questo modo, “Il contenuto è ciò che mi aspetto genererà gran parte dei soldi su Internet, proprio come lo è stato per la televisione. La rivoluzione televisiva iniziata mezzo secolo fa ha generato diverse industrie, tra cui la produzione di televisori, ma i vincitori di lungo termine sono stati quelli che hanno utilizzato il mezzo televisivo per fornire informazione e intrattenimento”, e aggiunse, “una delle cose più interessanti di Internet è che chiunque disponga di un personal computer e di un modem può pubblicare qualsiasi contenuto abbia creato. In un certo senso, Internet è l’equivalente multimediale della fotocopiatrice, consente di duplicare a basso costo qualsiasi materiale, indipendentemente dalle dimensioni del pubblico”.
Con le sue parole, Gates dimostrò di avere compreso che Internet avrebbe gettato le basi dell’Economia della Creazione. Tuttavia, si trattava di un’analisi molto in anticipo sui tempi, ed infatti lo stesso Gates se ne rese probabilmente conto poiché aggiunse, “le prospettive di lungo termine sono buone, ma nel breve periodo mi aspetto molte delusioni”. Terminò poi il suo breve saggio scrivendo, “coloro che avranno successo spingeranno Internet in avanti come mercato di idee, esperienze e prodotti, cioè come mercato di contenuti”.
Per come si è sviluppata la Rete fino ad oggi, la previsione di Gates non si è ancora avverata. Negli ultimi 20 anni siamo infatti passati attraverso la seconda era di Internet, quella che oggi viene chiamata Web2 e che è stata caratterizzata dalla cosiddetta “economia dell’attenzione”. Negli anni 2000 infatti, quando la quantità di informazioni distribuita attraverso la Rete è esplosa, l’attenzione dei consumatori è diventata un bene scarso e quindi prezioso. Molti prodotti e servizi digitali sono stati resi gratuiti in cambio della “vendita dell’attenzione dei consumatori” e delle relative informazioni personali.
Tutto questo è avvenuto poiché Internet non è stato costruito per facilitare il flusso di denaro; i pagamenti non erano – e in buona misura non lo sono ancora oggi – integrati nell’infrastruttura alla base della Rete, poiché considerati troppo rischiosi. Ed è proprio la mancanza delle infrastrutture di pagamento il motivo per cui gran parte di Internet è stata e viene tuttora monetizzata tramite la pubblicità. Piuttosto che richiedere agli utenti di estrarre una carta di credito e far digitare loro le proprie informazioni in un sito Web, si preferisce monetizzarle attraverso un bene diverso: la loro attenzione. Le piattaforme social hanno così vinto la battaglia per l’attenzione dei consumatori ed hanno ottenuto i risultati economici che tutti conoscono – ricordo, ad esempio, che Google e Facebook da sole rappresentano più della metà dei ricavi del mercato globale della pubblicità digitale.
Cosa vi fanno pensare le parole “economia della creazione”? Probabilmente vi fanno pensare ad un ambiente economico in cui la creatività, l’autenticità e la passione sono gli elementi determinanti alla base della creazione di valore economico. In realtà, anche se non esiste ancora una definizione accademica del termine “economia della creazione”, spesso viene associato a quel segmento della digital economy formato dai cosiddetti “creatori online”, cioè quelle persone che utilizzano piattaforme digitali per creare contenuti e successivamente “monetizzarli” – cioè venderli – sia nel mondo reale che in quello virtuale. Come scrivevo nel mio ultimo articolo pubblicato su Changes, si stima che ad oggi il numero di questi creatori sia pari a circa 50 milioni – di cui solo 2 ne hanno fatto una professione e quindi una fonte stabile di reddito. Si tratta però di un numero destinato a crescere, e anche rapidamente. Da diverse ricerche svolte negli ultimi 2 anni in vari Paesi europei e in Nord America è emerso infatti che la percentuale di giovani delle generazioni Alfa e Z che desidera diventare creatore online è superiore al 30%. Se poi si considerano i giovani asiatici del Giappone, della Corea del Sud e delle più grandi città della Cina, allora la quota arriva quasi al 40%.
Tuttavia, è lecito chiedersi se quando si parla di “creatori” sia corretto fare riferimento solamente a coloro che usano strumenti digitali per creare prodotti o servizi, trascurando così tutti coloro che usano invece strumenti non (esclusivamente) digitali per creare prodotti o servizi di tipo fisico. Detto in altre parole, è difficile pensare che un artigiano che realizza con le sue mani delle super-morbide borse in pelle oppure dei meravigliosi piatti e vasi in ceramica, non debba essere considerato un creatore. Ma anche un cuoco che “inventa” delle gustosissime ricette per i clienti del suo ristorante si offenderebbe parecchio se non fosse considerato un creatore. E che dire di quel pasticciere che prepara dei babà al rum dal gusto sublime, piuttosto che un giovane artista che decora pareti all’interno di residenze private o riempie di tatuaggi la pelle di coloro che desiderano sentirsi “più belli”. E quel piccolo imprenditore che nella sua piccola azienda realizza straordinari pezzi di arredamento, non è pure lui un creatore?
La relazione esiste ed è molto profonda. Alcune delle tecnologie associate al Metaverso, in particolare le applicazioni decentralizzate, cioè le applicazioni che si prevede caratterizzeranno la terza era di Internet – il cosiddetto Web3 – saranno infatti quelle che forniranno una spinta straordinaria per lo sviluppo dell’economia della creazione. Per capire meglio come questa spinta potrà realizzarsi vediamo come le tecnologie del Web3 potrebbero rivoluzionare un settore piuttosto “fermo” qual è quello editoriale, in particolare quello dei libri. Alcune delle tecnologie del Web3 permetterebbero ad esempio di possedere una “quota di partecipazione” in un libro, che potrebbe essere ad esempio Harry Potter. Detto in altre parole, è come se una serie di libri funzionasse come una società quotata in borsa, della quale le persone possono acquistare “azioni”, e attraverso il successo dei libri della serie, quelle “azioni” aumentassero di valore. Se così fosse, un lettore che ha acquistato il 3% di Harry Potter quando erano state vendute le prime copie, ora sarebbe diventato miliardario. Immaginiamo anche come tutto questo potrebbe influenzare l’intera “esperienza di lettura”, cioè influenzare anche ciò che accade prima e dopo l’acquisto e anche dopo la lettura del libro. Improvvisamente, un viaggio alla Feltrinelli potrebbe diventare un’opportunità di investimento. I primi lettori potrebbero individuare infatti la “prossima grande storia”, decidere di dare un contributo di 100 euro che potrebbero diventare 10.000 o addirittura 100.000 qualora la popolarità del libro crescesse. Se i lettori potessero possedere una “quota di partecipazione” nel libro, sarebbero anche incentivati ad aiutare quel libro ad avere successo, aprendo ad esempio un account TikTok per promuoverlo tramite BookTok o usare il loro talento di registi per adattarlo allo schermo del computer o del televisore. Tutto ciò contribuirebbe a far aumentare il valore del loro investimento iniziale.
Se tutto questo vi sembra un futuro che non si potrà realizzare, sappiate che un numero crescente di startup editoriali sta cercando di realizzarlo utilizzando alcune tecnologie del Web3. Il loro obiettivo è quello di trasformare un libro da oggetto che viene acquistato per 10 euro su Amazon ad un’opportunità di investimento da 100 euro, creando al contempo un mercato di lettori entusiasti nel vedere i libri che essi amano avere successo.
Se questo vale per un particolare genere di creatore qual è un giovane scrittore, può certamente valere anche per ogni altro genere di creatore, che sia un artista digitale o un giovane artigiano che realizza borse in pelle piuttosto che un pasticciere. Se è molto facile immaginare come sarebbe il caso di un artista digitale, non è difficile immaginare anche il caso di un giovane che crea delle meravigliose borse in pelle che ora sono presenti solo nel suo negozio, in una piccola città italiana, piuttosto che il caso di un pasticciere napoletano che crea dei babà al rum dal gusto insuperabile. Pensate, se prima dicevo che le tecnologie del Web3 potrebbero rivoluzionare un’intera “esperienza di lettura”, ora dico che potrebbero rivoluzionare l’intera “esperienza d’uso di una borsa artigianale in pelle”. E così, improvvisamente, la visita al negozio dell’artigiano potrebbe diventare un’opportunità di investimento. Analogamente, le tecnologie del Web3 potrebbero rivoluzionare l’intera “esperienza di assaggio di un babà al rum”, e quindi la visita ad una pasticceria potrebbe anch’essa trasformarsi da esperienza di consumo a opportunità di investimento.
D’altra parte, se molte aziende non hanno ancora compreso che il Metaverso sarà l’unica arena nella quale dovranno competere nel futuro, è perché non hanno ancora capito bene cosa sia l’economia della creazione e chi sono i creatori. Molte di loro danno, infatti, una risposta incompleta alla domanda che ho posto sopra, limitandosi a considerare i soli “creatori online”. In realtà, se aggiungiamo alle percentuali dei giovani che vogliono diventare “creatori online” quella di coloro che vogliono diventare “creatori ibridi”, cioè soggetti che esercitano le loro abilità creative utilizzando congiuntamente mani, attrezzi fisici e tecnologie digitali, ecco che si arriva a percentuali molto alte, anche superiori al 60%. E badate bene che anche l’Italia potrebbe essere un terreno molto fertile per lo sviluppo dell’economia della creazione. Infatti, se da una parte la percentuale di giovani che vuole diventare “creatore online” non è alta come quella nordamericana o asiatica, risulta invece molto più alta la quota di giovani che vuole diventare “creatore ibrido”, portando così la percentuale complessiva di giovani italiani che vuole diventare “creatore” a valori addirittura superiori al 70%.
L’economia del futuro sarà allora – per una quota molto rilevante – economia della creazione, e di conseguenza – per molte aziende – l’arena competitiva del futuro sarà basata sull’economia della creazione. In particolare, per le aziende che operano nella produzione e vendita di qualsiasi bene o servizio, fisico o digitale, e che si rivolgono a consumatori, artigiani, professionisti e piccoli imprenditori, l’unica e sola arena competitiva sarà basata sull’economia della creazione. Ed è questa futura arena competitiva ciò che io chiamo “Metaverso”.
In un ambiente economico basato sulla creazione, gli individui desiderano sfruttare le proprie abilità per sviluppare nuova proprietà intellettuale, ovvero desiderano sviluppare nuovi prodotti o servizi, sia fisici che digitali, che possano essere venduti nel mondo reale e anche nei cosiddetti mondi virtuali. Pertanto, in un’arena competitiva basata sull’economia della creazione, la forza trainante che spinge il coinvolgimento delle persone nei confronti dei brand è generata dal desiderio di soddisfare il “bisogno di creazione”, o meglio, dal (forte) desiderio di esercitare e sviluppare abilità creative per realizzare cose utili e belle. In un’arena competitiva di questo tipo, i brand che creano valore non sono più quelli che realizzano cose utili e belle, ma sono quelli che aiutano i creatori a realizzare cose utili e belle attraverso una strategia Business to Creator.
Per competere in questa nuova arena, i brand dovranno allora dotarsi di un metodo di analisi strategica attraverso il quale capire da cosa dipende il successo competitivo in un sistema basato sull’economia della creazione e quali sono le leve su cui agire per creare valore. Come ho anticipato nel mio ultimo articolo, nella mia attività professionale e di ricerca ho sviluppato e applicato un modello di analisi strategica che aiuta a progettare e realizzare una strategia Business to Creator finalizzata a creare valore per i brand e per i creatori, in modo congiunto.
Ho chiamato questo modello “Le 5 forze competitive per creare valore nel Metaverso”, per analogia con il modello di analisi strategica sviluppato da Michael Porter alla fine degli anni 70.
Le 5 forze competitive che ho individuato sono le seguenti:
Descriverò le prime 2 forze competitive in questo articolo, mentre le altre 3 forze le descriverò in un prossimo articolo che sarà presto pubblicato su Changes.
Fino ad oggi gli NFT sono stati utilizzati dai brand principalmente per lanciare collezioni di prodotti digitali, abbinandoli a volte con i corrispondenti “gemelli” fisici e al più associandoli a delle “semplici” esperienze. Per primi si sono mossi in questa direzione i brand del settore del lusso e dell’abbigliamento, seguiti poi da brand di altri settori. In questo modo hanno trasformato alcuni loro prodotti fisici in oggetti digitali collezionabili attraverso i quali creare awareness nei confronti del brand. Analogamente alcune aziende del settore dei media si sono lanciate nell’uso degli NFT per vendere i contenuti da esse prodotti, attraverso la realizzazione di una nuova classe di risorse multimediali. La CNN, ad esempio, nel giugno dello scorso anno, ha venduto una collezione limitata di NFT abbinata a delle trasmissioni in diretta di “eventi memorabili” trasmessi nel corso dei suoi 42 anni di storia, a cui ha poi fatto seguito – alla fine del mese di marzo di quest’anno – la vendita di 250 NFT abbinati ai primi 29 secondi del primo episodio di uno show mattutino che ha segnato il lancio del nuovo canale in streaming CNN+.
Questo genere di progetti sono stati portati avanti in modo particolarmente “robusto” da due dei brand più noti dello sportswear, Nike e Adidas. Nike nel dicembre 2021 è arrivata ad acquisire RTFKT – una startup nata nel 2020 specializzata in sneakers digitali basate su NFT – mentre Adidas – sempre a dicembre 2021 – ha messo in vendita 8000 NFT che danno diritto a capi digitali da indossare in un mondo virtuale (The Sandbox), nonché la possibilità esclusiva di acquistare prodotti fisici da indossare nella vita reale e l’accesso a speciali esperienze digitali e fisiche.
In tutti questi casi gli NFT sono stati utilizzati per realizzare un’estensione del brand. Si è trattato infatti di portare nel Metaverso una linea di prodotti già esistente nel mondo reale, oppure realizzare una nuova linea di prodotti “solo digitali” che replica i prodotti fisici del brand, con un eventuale abbinamento a esperienze fisiche o digitali. Si tratta di progetti che certamente ampliano il modo in cui i consumatori possono interagire con un brand ed acquistare i suoi prodotti, ma rappresentano comunque una strategia tradizionale di estensione del brand. In questo modo però le aziende non si rivolgono ai creatori, e così facendo rischiano di perdere di vista il cambiamento epocale che sta portando verso l’economia della creazione.
La tecnologia degli NFT potrebbe invece essere utilizzata dai brand per dare la possibilità ai creatori di “mescolare” i prodotti realizzati dagli stessi brand, realizzando una vera e propria “ingegneria genetica” dei prodotti fisici. Questo è ad esempio ciò che lascia intravedere il brevetto CryptoKicks – registrato da Nike nel dicembre del 2019 – qualora fosse integrato da alcune tecnologie emergenti di identificazione basate su NFT comparse negli ultimi mesi. Il brevetto di Nike consente di associare ad un paio di scarpe fisiche acquistate in negozio un paio di scarpe virtuali gemelle di quelle fisiche, attraverso un NFT che l’acquirente riceve al momento dell’acquisto, mentre le tecnologie emergenti di identificazione – quali quelle di Veracity Protocol – consentono a chiunque la creazione di un NFT derivato da qualsiasi oggetto fisico nonché dalle proprietà strutturali dei suoi elementi fisici componenti. Se tutto questo fosse applicato ad esempio alle scarpe da running, si può intravedere un futuro non lontano in cui i proprietari di più paia scarpe – e dei relativi NFT – potrebbero creare modelli completamente nuovi componendo parti di scarpe diverse in modo personalizzato. In altre parole, se un acquirente di due paia di scarpe preferisce – del primo paio – la suola e il tallone, e del secondo preferisce invece la linguetta e la tomaia, sarebbe in grado di creare una nuova sneaker che combina le parti preferite creando così un modello esclusivo che potrebbe essere esibito e venduto singolarmente. È come se due “sneakers genitori” unissero il loro DNA per creare una coppia di “sneakers figlie” con un design completamente nuovo. Questo processo ovviamente non sarebbe senza vincoli, poiché le restrizioni della struttura di una determinata scarpa regoleranno ciò che potrebbe essere creato. Tuttavia, se le scarpe sono abbinate ad un NFT, l’intera prole di una sneaker sarà comunque sempre rintracciabile sulla blockchain fino alla sua origine, indipendentemente dal numero di riproduzioni avvenute lungo il percorso, e inoltre, il creatore – nonché il brand – potranno guadagnare una quota dei ricavi derivanti dalla vendita di ogni singolo elemento della discendenza.
Appare chiaro come in questo modo gli NFT potrebbero stimolare innovazioni radicali nel design dei più svariati prodotti fisici, sviluppando così dei mercati di prodotti originali completamente nuovi. Allo stesso modo, potrebbero essere rivoluzionati i mercati secondari dei prodotti fisici usati, garantendo ai brand la possibilità di catturare una parte del valore delle rivendite nonché la possibilità di coinvolgere in infiniti modi diversi, nelle attività post-vendita, i clienti creatori.
Gli NFT ai quali ho fatto riferimento fino ad ora sono di tipo statico, in altri termini, si tratta di token non fungibili che elaborano dati non modificabili registrati sulla blockchain. Va comunque precisato che un NFT statico può essere comunque associato ad immagini animate, filmati e ogni sorta di complessità che rende gli NFT così interessanti sia per i collezionisti che per i creatori. D’altra parte, una delle maggiori attrattive degli NFT è rappresentata proprio dall’impossibilità di modificare i corrispondenti dati residenti sulla blockchain. Questa immutabilità impedisce, ad esempio, di creare un NFT con l’immagine di un gatto e poi trasformarla – dopo che è stato venduta – nell’immagine di un cane.
Gli sviluppi più recenti della tecnologia che sta alla base degli NFT hanno però reso possibile la modifica dei dati da essi elaborati, mettendo a disposizione quelli che sono chiamati NFT dinamici, cioè token non fungibili che elaborano dati registrati sulla blockchain che possono essere modificati sia sulla base di quanto accade nei mondi virtuali, sia sulla base di eventi del mondo reale, quali ad esempio esperienze vissute dalle persone piuttosto che cambiamenti delle caratteristiche fisiche degli oggetti.
Per quanto riguarda la modifica generata da eventi che accadono nei mondi virtuali, recentemente sono stati presentati dei casi d’uso in cui un oggetto digitale si trasforma in base al numero di visualizzazioni degli utenti, arrivando a giocare con la cosiddetta liminalità visiva, rappresentata ad esempio da un’immagine che inizialmente è uno schizzo e che diventa più dettagliata – e più bella – all’aumentare del numero di utenti che la visualizzano. Oppure, l’immagine di un fiore che se riceve più attenzione – cioè visualizzazioni – sboccia, oppure appassisce. Se pensate tutto questo realizzato in tre dimensioni, l’effetto che ne deriva è certamente coinvolgente.
Tuttavia, lo straordinario potenziale degli NFT dinamici potrebbe essere colto pienamente se fossero utilizzati per realizzare una connessione tra mondi virtuali e mondo fisico che incorpora gli eventi del mondo reale, piuttosto che il semplice trascorrere del tempo. Pensate ad esempio agli oggetti da collezione il cui valore – per molti di loro – cresce con il passare del tempo, e per quelli che invece non manifestano i segni dell’invecchiamento tende a diminuire. Oppure, se pensiamo ad un NFT statico a cui è associata una figurina collezionabile rappresentativa di un giocatore di calcio, lo rappresenterebbe sempre con la stessa maglietta. In questo modo però, i cambi di squadra del giocatore – da una stagione all’altra – non sarebbero rappresentabili con un NFT statico. Attraverso un NFT dinamico sarebbe invece possibile modificare l’immagine per riflettere i “cambi di casacca” del giocatore. Oppure, pensate all’immagine di una persona che (molto) lentamente invecchia o quella di un albero che perde e riacquista le foglie con il passare delle stagioni.
Ma è nell’ingegneria dei prodotti fisici che l’applicazione degli NFT dinamici da parte di brand e creatori sarebbe veramente “emozionante” nonché generatrice di valore. Lo scorrere degli eventi del mondo reale – e il coinvolgimento sensoriale che ne può derivare – rappresentano infatti un elemento essenziale che contribuisce all’esperienza emotiva delle persone. D’altra parte, anche se ci limitassimo a considerare l’utilità degli NFT dinamici qualora fossero utilizzati dai creatori per progettare oggetti fisici, i risultati potrebbero essere comunque rivoluzionari. Se torniamo all’esempio riportato sopra relativo alla creazione di una coppia di sneakers figlie, si potrebbe immaginare che i dati elaborati dagli NFT per la creazione della coppia di sneakers siano aggiornati in funzione dell’utilizzo che viene fatto delle scarpe “genitrici”. Potrebbero così generarsi nuove coppie di scarpe con caratteristiche fisiche che tengono conto di come la scarpa viene calzata piuttosto di come tocca il terreno. È facile immaginare la spinta formidabile che si potrebbe avere nell’innovazione di prodotto nei mercati più disparati. Gli stimoli e le opportunità per i creatori sarebbero di dimensione stellare, ed i brand che hanno dato loro la possibilità di sfruttarli ne potrebbero trarre un beneficio straordinario in termini di crescita di valore.