Sessualità: per i giovani meglio libera e fluida
Negli ultimi 10-15 anni, sottotraccia e senza troppi clamori, si è sviluppata una rivoluzione che ha cambiato il mondo delle relazioni romantiche. I giovani descrivono una societ
Le statistiche di Eurostat e dell'Ocse che misurano il tempo passato al lavoro e i risultati prodotti rivelano il paradosso italiano. Changes ne ha parlato con Luciano Floridi.
Le statistiche di Eurostat e dell’Ocse che misurano il tempo passato al lavoro e i risultati prodotti rivelano il paradosso italiano. Changes ne ha parlato con Luciano Floridi.
Nel 2018 ogni settimana in media un lavoratore italiano a tempo pieno ha dedicato alla sua occupazione 40,7 ore, un valore che pone l’Italia alla pari con l’Olanda (40,8) e più avanti di Svezia (40,6), Norvegia (38,9) e Danimarca (38,5). Ma se si analizza la questione dal punto di vista della produzione della ricchezza la classifica, secondo i dati Eurostat e Ocse, si ribalta: il lavoratore italiano crea 57,6 euro di Pil per ogni ora lavorata, mentre in Svezia questo valore sale a 71,4 e in Danimarca, che secondo le statistiche Ocse nel 1970 era al nostro stesso livello, gli euro diventano 77,2. E in Norvegia si arriva a 86,8 euro. Peggio dell’Italia fa solo la Grecia: con 44,2 ore lavorate in media a settimana si generano solo 38,5 euro di Pil. Come dire, che il tempo è uguale per tutti ma non vale allo stesso modo per ognuno.
Da tempo ci si interroga su come il lavoro possa cambiare forma e diventare più produttivo. Lavorare senza orari fissi, ovunque ci si trovi, quando si vuole. La tecnologia e l’ondata di digitalizzazione che ha travolto le nostre imprese negli ultimi anni ha reso possibile tutto questo. E oggi anche in Italia lo smart working è una realtà per 480 mila lavoratori, in crescita del 20%. Una popolazione che si ritiene più soddisfatta degli impiegati tradizionali sia per l’organizzazione del lavoro (39% contro il 18%), sia per le relazioni con colleghi e superiori (40% contro il 23%). A dirlo è l’ultimo Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, in base al quale il lavoro flessibile è ormai presente in oltre la metà delle grandi imprese made in Italy e nell’8% delle Pmi. Ma la verità è che ancora non abbiamo visto nulla. «E’ l’inizio di un cambiamento radicale importante di cui lo smart working è solo la punta dell’iceberg», afferma senza tanti giri di parole Arianna Visentini, Ceo di Variazioni, società di consulenza aziendale.
Già perché nel prossimo futuro l’affermarsi dell’economia 4.0 e dell’Intelligenza artificiale si abbatteranno come bulldozer sulle nostre aziende demolendo mura, modificando spazi, organizzazioni e cultura. Le nostre imprese diventeranno così navicelle spaziali in movimento nell’infosfera, termine coniato da Luciano Floridi, professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab. Ovvero nella globalità dello spazio delle informazioni. E nulla sarà più come prima.
L’evoluzione Hi tech avviene in tempi sempre più veloci e introduce nuove possibilità, nuovi modi di lavorare e professioni ancora sconosciute. Basti pensare alla tecnologia 5G, ormai prossima, con la quale verranno definitivamente aperte le porte allo IOT, l’Internet delle cose, grazie al quale qualsiasi oggetto reale potrà interagire con la rete e trasferire dati e informazioni. Un cambiamento epocale che renderà ancora più semplice lavorare a distanza. «Il vantaggio maggiore è la flessibilità, il che non significa che si lavorerà meno», precisa Luciano Floridi. «Diciamo che i tempi del lavoro saranno sempre meno dettati da quelli dell’ufficio. Si lavorerà ovunque. E questo, su un territorio italiano fatto di realtà sociali differenti sarà fondamentale perché potrà influire positivamente sull’occupazione anche delle aree depresse. Non è tanto dove si lavorerà ma quando lo si farà. Il quando determina il dove. Tutte e due le variabili sono importanti. Non è una questione di spazio ma di tempo». L’importante è saper affrontare e soprattutto gestire in modo accorto ed etico il cambiamento.
Questo non significa solo dare la possibilità di lavorare da remoto ai dipendenti che lo richiedono o modificare gli spazi lavorativi eliminando postazioni fisse e uffici assegnati per dare spazio a open space dove impera la modularità necessaria per creare posti adattabili ai diversi bisogni dei lavoratori, con aree dedicate allo svago e al brainstorming, focus room o quiet room per chi ha bisogno della massima concentrazione.
Per cogliere appieno i vantaggi che le nuove tecnologie e lo smart working portano in termini di maggiore produttività ed engagement del personale occorre scardinare il nostro modello economico, ormai inadatto ad affrontare le sfide che la 4 rivoluzione industriale impone con forza.
E non è tanto una questione di legge e regolamenti. «Quelli già ci sono», ha spiegato a Changes l’Avvocato Luca Failla, fondatore e partner LabLaw, studio legale specializzato nel diritto del lavoro. «La legge n. 81/2017, infatti disciplina la flessibilità organizzativa, la volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e l’utilizzo di strumentazioni che consentono di lavorare da remoto (come ad esempio: pc portatili, tablet e smartphone). La difficoltà è concettuale e culturale». La nostra cultura del lavoro, infatti si fonda ancora su una retribuzione basata su ore lavorate e non su obiettivi raggiunti. «Ed è proprio questo il punto che le nostre imprese ancora faticano a comprendere pienamente. Così come fanno fatica a responsabilizzare i lavoratori e ad avere fiducia in essi, cosa che invece sarebbe necessaria», evidenzia Failla. «Dobbiamo ancora capire come controllare la produttività lavorando per obiettivi e non per ore». Quello che serve, insomma, è un modello organizzativo fondato su parametri qualitativi anziché quantitativi, un modello in cui da un sistema fondato sulla gerarchia e le procedure standardizzate si passa a una struttura costruita sulla crescita delle competenze e delle responsabilità individuali.
Per raggiungere questo target serve prima di tutto un cambio di paradigma nell’organizzazione del lavoro. «Smart working infatti non significa semplicemente lavorare da casa ma soprattutto innovazione organizzativa, tecnologica e quindi digitalizzazione dei processi produttivi aziendali e della cultura del lavoro destinata ad essere sempre più basata sulla condivisione delle conoscenze», spiega Visentini. «Il che comporta inevitabilmente una ridefinizione dei rapporti con i colleghi: cambia quindi il concetto di team, così come quello della figura del leader che deve essere capace di gestire le relazioni all’interno del gruppo, di motivarlo a collaborare in modo costruttivo con una attenzione al benessere delle persone»
E qui entra in gioco un altro fondamentale tema per un lavoro a distanza che vada oltre lo smart working come oggi lo conosciamo, che è quello della formazione. Formazione che deve coinvolgere prima di tutto i manager ancora non abituati a gestire le persone a distanza. «Bisogna rendersi conto che le persone lavorano meglio quando hanno obiettivi chiari, quando vengono supportate e a loro volta supportano e quando sono libere di scegliere le condizioni di tempo e spazio nelle quali lavorare» prosegue Visentini. La produttività delle nostre imprese è strettamente legata a quanto le persone sono ingaggiate nel loro lavoro. Motivate a lavorare nel migliore dei modi. «Le nostre imprese hanno dato grande peso alle competenze tecniche mentre sono altrettanto fondamentali le competenze trasversali fino ad oggi un po’ trascurate. Ma è bene iniziare a prenderle in seria considerazione». Le persone devono tornare al centro delle strategie aziendali.
Sul tema della necessità di mettere le persone al centro della strategia aziendale torna anche Floridi. «L’azienda che si mette al centro è perdente, quella che mette al centro i propri collaboratori e la propria clientela no. La mossa finale è mettere al centro la relazione con l’altro. Il matrimonio non è centrato solo su una delle due persone, ma sulla loro relazione, perché nessuna delle due è più importante della loro somma. Così, anche nel rapporto di partnership di un’azienda con un’altra azienda, al centro è la relazione tra le due. Quello dell’infosfera è un mondo molto più maturo. Si è passati dal pensiero meccanicistico, dove conta ogni rondella, a un diverso pensiero dove conta il network e dove tutti i punti sono collegati». Le aziende e le istituzioni che capiscono questi concetti riusciranno a ottenere il massimo dal digitale. Le altre rientreranno nella categoria dei perdenti. «Mi piacerebbe vedere uno sforzo di tipo istituzionale e organizzativo per lo sviluppo di una buona cultura della flessibilità. Sarebbe un peccato se sprecassimo la grande opportunità che ci sta offrendo la digitalizzazione nella direzione di una migliore produttività e work life balance», conclude Floridi.