Stupidità digitale

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Stupidità digitale

Negli ultimi 7 anni i disturbi dell'apprendimento sono aumentati del 375%. Internet sta rovinando i nostri figli? Ecco cosa possiamo fare per evitarlo.

Stiamo crescendo dei figli sempre meno intelligenti? Il nostro Paese è destinato ad avere una classe dirigente affetta da demenza digitale? Il dubbio, per quanto spaventoso, nasce da un insieme di dati e di studi autorevoli, tutti concordi nel presentare i bambini e ragazzi di oggi come soggetti incapaci di concentrarsi, privi di abilità critiche e soprattutto ottenebrati da un padrone disumano: il supporto tecnologico.

E così, se finora gli scienziati ritenevano che, in base al cosiddetto “effetto Flynn” (dal nome dell’omonimo psicologo, autore di un noto studio uscito nel 1987) i quozienti intellettivi dei ragazzi aumentassero in media di 3 punti per decennio, studi più recenti, condotti a partire dai primi anni del Duemila, dimostrerebbero il contrario. Al punto che nel 2016 lo stesso Flynn, dopo aver esaminato un campione di adolescenti norvegesi e britannici, si è ricreduto: «Il progresso in QI registrato nel ventesimo secolo si è indebolito».

«Siamo di fronte a una debacle epocale. Purtroppo, negli ultimi 7 anni i disturbi dell’apprendimento sono aumentati del 375%» sigla Andrea Cangini, capogruppo della Commissione Istruzione del Senato che ha chiesto a numerosi esperti di illustrare nell’aula parlamentare le loro conclusioni sul rapporto tra tecnologia e ragazzi. «Il risultato delle loro relazioni degli studiosi, raccolto nel volume Coca Web (Minerva edizioni), è stato sconfortante: l’82% degli studenti delle medie, per esempio, non sa distinguere tra notizia e contenuto sponsorizzato e crede che il primo risultato che esce da una ricerca di Google sia il più autorevole e veritiero, non quello dettato da una specifica logica degli algoritmi. È un dramma contro cui possiamo far poco», ammette Cangini, «perché questi dispositivi attivano gli stessi meccanismi di gratificazione della droga».

Dipendenza da web

Ecco perché il paragone, alluso nel titolo del libro, tra la dipendenza da cocaina e quella dal web non è fuori luogo. In entrambi i casi, una volta iniziato il “consumo”, la dipendenza è quasi inevitabile e gli effetti spaventosi. L’accesso al computer o a internet a casa di un ragazzino ne abbassa il rendimento in matematica e in letteratura, dicono le statistiche. Perfino la sola presenza di uno smartphone sulla scrivania, pure se non viene utilizzato, basta ad abbassare il tasso di concentrazione e di memoria dei bambini. Insomma, i nostri figli rischiano di diventare “dementi digitali” come li chiama Manfred Spitzer, celeberrimo neuropsichiatra dell’Università di Ulm che in Senato ha dichiarato, senza alcuna esitazione, che il tempo che un bambino di 2 anni passa davanti a uno schermo abbassa il suo sviluppo cognitivo a 3 anni e che lo stesso vale in seguito, fino all’età adulta. Non solo: sulla scia di evidenze scientifiche, Spitzer ha messo in relazione diretta la digitalizzazione scolastica, che ora è al centro di interventi appositi nell’ambito del Pnrr, e un abbassamento della capacità di apprendimento. «Un caso eclatante, in merito, è quello dell’Australia: il Paese nel 2018 ha investito 2,4 miliardi di dollari sulla digitalizzazione, con il risultato di registrare un deciso peggioramento dell’apprendimento dei giovani nei 10 anni successivi – ricorda Cangini-. Perfino all’accademia militare americana di West Point, dove l’ambiente è competitivo e gli allievi vogliono emergere, chi ha studiato con un laptop in media ha ottenuto risultati inferiori a chi ha studiato sui libri. E la stessa lezione, se seguita online anziché in presenza, resta impressa mediamente il 30% in meno».

La digitalizzazione scolastica va integrata

I danni collaterali legati alla tecnologia si accrescono quando essa non integra altre forme di apprendimento, ma le sostituisce. Per esempio, se oggi i nostri ragazzi non imparano più a scrivere a mano, perché tanto basta battere sui tasti di un computer, non attivano determinate aree del cervello collegate al movimento calligrafico, che in questo modo perdono per sempre di plasticità. E quando il telefonino entra in classe, l’incapacità di poter rallentare il ritmo frenetico di notifiche e like e di ragionare lentamente sulla natura dei problemi porta a un’assenza sistematica di sollecitazioni cerebrali fondamentali per lo sviluppo cognitivo. Una strage di neuroni che i più ignorano; non così, però, i guru della Silicon Valley, dai leader di Google a Facebook, che non a caso, sottolinea Cangini «vietano alla prole di avvicinarsi agli smartphone».

Che fare dunque? «Non possiamo fare i luddisti perché condanneremmo i nostri figli a vivere fuori sincrono con la loro epoca» premette Cangini. Tuttavia, alcune precauzioni si possono prendere per ridurre i danni subiti dai nostri ragazzi e salvaguardare la futura classe dirigente del Paese. «Gli esperti auditi dalla commissione del Senato raccomandano di insegnare la scrittura a mano, non consentire l’uso di uno smartphone o di un computer prima dei 14 anni, evitare l’ingresso dei telefonini in aula, come peraltro già previsto da una circolare ministeriale 2007».

In più, andrebbe regolamentato in maniera più stringente l’accesso ai social che oggi, per quanto la legge lo consenta a partire dai 13 anni, viene facilmente concesso anche a chi è più giovane. Stando ai dati, infatti, l’87% dei bambini dai 10 ai 14 anni li usa e il 91% di costoro non parla mai ai genitori di ciò che ha guardato online.

Inoltre, poiché le grandi società digitali racimolano proventi enormi da questa assuefazione che inducono nei ragazzi, come già si è fatto per l’industria del tabacco, Cangini ritiene che i giganti del web dovrebbero obbligatoriamente avvisare gli utenti dei rischi connaturati al loro utilizzo. Qualcosa come: «Attenzione, questo prodotto nuoce gravemente alla salute cerebrale».

Il resto dipende dai genitori e dalla loro capacità di controllare l’utilizzo dei supporti tecnologici da parte dei propri figli. In Corea del sud, il Paese dove ha sede Samsung, che è il primo produttore mondiale di telefonini, dal 2015 è obbligatorio per chi ha meno di 19 anni installare nel telefono in software che blocca la pornografia e i contenuti violenti e che misura il tempo di utilizzo giornaliero, avvisando i genitori se la soglia massima viene superata. In più, dopo la mezzanotte l’accesso ai server dei videogiochi viene disabilitato. Il provvedimento non funziona benissimo, ha ammesso nella sua relazione il citato Spitzer: tuttavia, ha proseguito l’esperto, «è meglio di nulla, e i sudcoreani continueranno a volerlo perché hanno capito che non possono né vogliono permettere alla Samsung di guadagnare così tanto a scapito dei loro figli».

Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​