Social hedging: vale la pena?

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Social hedging: vale la pena?

Siamo diventati consumatori seriali non solo di beni, ma anche di persone. La copertura del rischio della solitudine è però una condanna alla solitudine.

Social hedging : vale la pena ?

È innegabile: siamo diventati consumatori seriali non solo di beni, ma anche di persone. Abbiamo oggettivato in termini di profitto persino le relazioni umane, adeguandole ai nostri bisogni momentanei e non destinandole ad alcuna nuova produzione. Ci aveva visto lungo Baudrillard che, già nel 1970, nella Società dei consumi, scriveva: «La logica della merce si è generalizzata»; e oggi, nel 2022, possiamo affermare con ancor più certezza che questa governa «non solo i processi di lavoro e i prodotti materiali ma anche l’intera cultura». 

Tendiamo ad accumulare rapporti vantaggiosi – ma, a lungo termine, improduttivi – che ci soddisfano istantaneamente, scegliendoli sulla base della loro capacità di generare un certo beneficio; quanto meno sono accessibili, tanto più diventano desiderabili: e, una volta posseduti, cadono nel superato. Si tratta di un circolo vizioso per cui, ad esempio, una volta introdotti in un contesto ambìto grazie ad una “buona conoscenza”, quest’ultima viene scartata per far posto ad un’altra più vantaggiosa. Allo stesso modo, il consumatore, non essendo più appagato, passa sempre ad un nuovo prodotto o servizio, consumando sempre di più.

Su tutto domina il consumo

Anche nella nostra vita sociale, il consumo è diventato il solo fine, il solo oggetto dei rapporti interpersonali, l’atto conclusivo di un processo che conduce all’erogazione di un’apparente ricchezza: quella di diventare, a nostra volta, l’oggetto più desiderabile tra tanti oggetti desiderabili. La persona “più scelta” tra tante. Anche in questo campo, dunque, siamo diventati dei consumisti: scegliamo di stringere relazioni seguendo lo stesso criterio con cui acquistiamo i beni, ovvero optando per ciò che può distinguerci e contribuire a innalzare il nostro status (e quindi, la nostra desiderabilità). 

Il paradosso è naturalmente lo stesso che attraversa la logica consumista: la nostra libertà, apparentemente garantita dalla possibilità di scelta tra tanti e differenti prodotti (o persone) presenti sul mercato, non è altro che un adeguamento a un modello precostituito; è l’obbligo di dover sempre scegliere qualcosa o qualcuno che sia più adatto a costruire la nostra immagine, a differenziarci e a distinguerci. I beni si possono accumulare e poi scartare, così come – purtroppo – le persone; anzi, il consumatore, per essere davvero tale, deve sempre liberarsi di ciò che ha consumato.

Se ne abbiamo la possibilità, per non essere costretti a scegliere un solo paio di scarpe, ne acquistiamo due o tre o dieci, decidendo solo all’ultimo momento quale indossare, a seconda della situazione. Allo stesso modo, per non essere costretti a scegliere una sola persona, una sola opzione, prendiamo impegni su più fronti, posticipando la nostra decisione: due, tre o dieci appuntamenti fissati per una serata, prediligendone uno – il migliore – solo dopo aver esaminato un insieme di alternative. E manchiamo a tutti gli altri con una leggerezza ormai priva di sensi di colpa, quasi del tutto accettata e accettabile socialmente. A volte non troviamo neanche più scuse: – Sai com’è… . Così fan tutti

Copertura del rischio

Come se fossimo degli investitori, acquistiamo diverse opzioni o assicurazioni sulle azioni, altri indici e indicatori. Applichiamo cioè, come nel mondo finanziario, un hedging, la pratica che consiste nell’inseguire una o più operazioni di copertura del rischio a cui l’investitore è esposto relativamente ad un altro investimento; dal rischio di puntare tutto su una sola azienda…. Così come su una sola persona, un solo appuntamento, una sola relazione. Investiamo sulla Barilla, ma ci proteggiamo contro sbalzi nel prezzo del grano. Organizziamo una cena con Tizio, ma sentiamo anche Caio per informarci sui suoi programmi: lo raggiungeremo più tardi, oppure cancelleremo l’altro appuntamento. 

Ormai tendiamo a considerare limitante e negativo tutto ciò che è stabile e duraturo: preferiamo una ragnatela di connessioni sottili, ma invischianti, a legami di cui ignoriamo il carico e il punto di rottura. Il nostro più grande timore è infatti legato all’imprevisto: scegliere una sola persona – prendere un solo impegno – ci espone alla possibilità di essere, a nostra volta, scartati; e, a quel punto, non avere alcuna opzione alternativa. Si tratta di una eventualità per noi intollerabile. Dolore fisico e dolore sociale condividono le medesime basi neurali: quando avvertiamo un’esclusione sociale si accendono cioè le stesse aree cerebrali attivate da una sofferenza avvertita sul corpo; dunque, se anche il dolore sociale è direttamente correlato al benessere dell’individuo, è fisiologico volerlo evitare in ogni modo.

Il social hedging ci condanna, però, ad un altro tipo di dolore, diventato a tal punto cronico da non essere più avvertito distintamente: il rimanere insieme, ma soli – come tante monadi in compagnia. Come tanti amici sul divano, assorti ognuno nel proprio smartphone. Ma non c’è alcuna strada alternativa a questo tragitto, pur rassicurante, scavato dalla solitudine?

Sì, forse: affidarci alla «Geometria del Caso» (Aleae geometria) e scegliere l’azione che – diremmo oggi – massimizza il valore atteso. Affascinato dal gioco d’azzardo e dai suoi rivolti filosofici, Blaise Pascal partì dal presupposto che il calcolo delle probabilità nel ragionamento della scommessa può aumentare la possibilità di vincere, ma non garantire la vittoria. Al contrario, scommettere su un’unica puntata – e credere che sia quella giusta – non elimina il rischio, ma garantisce che la posta in gioco sia la più alta possibile.

Quand’anche la probabilità di successo della nostra scelta – un’unica, tra le tante, che cambia tutto (o anche solo, qualitativamente, un’ora, una serata, un weekend) – fosse bassa, ma superiore a zero – superiore alla costante e sfinente solitudine, indubitabile nel social hedging –, il valore del premio sarebbe infinito. E «dovunque ci sia l’infinito, e non ci sia un’infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c’è da esitare: bisogna dar tutto».

Economista, consulente strategico e corporate trainer. Si è formato all’Università Bocconi di Milano e all’INSEAD di Fontainebleau, e ha girato il mondo per lavoro e per passione: Head of Business Development Unit di Finmeccanica in Russia, Senior Manager di McKinsey a Londra e Principal di AlphaBeta a Singapore, dove ha gestito progetti con aziende del calibro di Google, Uber e Microsoft. In precedenza, ha lavorato anche presso Goldman Sachs e le Nazioni Unite a New York. Tornato a Bari, ha fondato la Disal Consulting e si occupa di ricerca, consulenza, comunicazione e formazione per grandi aziende italiane (Ferrari e UniCredit), colossi digitali (Netflix e Amazon), istituzioni multilaterali (World Economic Forum) e governi nazionali (Francia, Cina e Germania). Insegna alla IE Business School di Madrid e alla Nanyang di Singapore, e dirige il Master in Digital Entrepreneurship presso H-Farm, dove cerca di trasmettere l’importanza dello storytelling per la riuscita di un progetto imprenditoriale. Dopo il successo del suo primo libro Flow Generation - manuale di sopravvivenza per vite imprevedibili, ha pubblicato con Hoepli Phygital - il nuovo marketing tra fisico e digitale.