Non chiamatela resilienza

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Non chiamatela resilienza

Dalla pandemia al virus endemico: come possiamo costruire la nuova normalità e convivere con le crisi? Il new normal come arte dell'adattabilità.

Per quanto le vicende legate al conflitto russo ucraino abbiano messo in ombra l’andamento pandemico in tutto il mondo, il contagio non è finito. Infatti le epidemie finiscono in due modi: o si chiudono  le catene di trasmissione e i casi scendono a zero, come è stato con il vaiolo, o la malattia diventa una costante nelle nostre vite, ossia qualcosa di endemico, che va gestito con richiami annuali e misure di contenimento.

Sembrerebbe questa l’ipotesi più probabile per i Paesi occidentali, dove possiamo aspettarci un futuro di test onnipresenti, interazioni più controllate nei luoghi di lavoro e nelle scuole e risposte rapide agli hotspot di trasmissione. Non è però da escludere che ogni Nazione trovi un modo specifico di convivere con il virus.  È ciò che circa due mesi fa ha previsto la società di consulenza McKinsey, ipotizzando che «i luoghi in cui COVID-19 ha messo in luce la fragilità del sistema sanitario possano scegliere di concentrarsi principalmente sul non sovraccaricare i propri ospedali, mentre altri possano abbracciare un mix più integrato di fattori economici, sociali e sanitari».

I pilastri del post-pandemia

In sintesi, secondo Mc Kinsey, il post pandemia dovrà vertere su 4 pilastri: «I governi dovranno creare consenso sugli obiettivi, e impostare i giusti incentivi;  i datori di lavoro dovranno stabilire linee guida per il posto di lavoro e aiutare i dipendenti a pensare ai cambiamenti; i sistemi sanitari dovranno trovare il giusto equilibrio tra richieste concorrenti e gli individui sfidare le convinzioni che hanno sviluppato negli ultimi 18 mesi e adottare nuovi comportamenti».

«Più facile a dirsi che a farsi», chiosa Mauro Magatti, docente di Sociologia all’Università Cattolica di Milano che al post pandemia ha dedicato il suo ultimo saggio, Nella fine è l’inizio (Il Mulino). Perché, secondo lo studioso, definire la nuova normalità in base a questi principi corrisponde a «un punto di vista quantomeno limitato»: cioè quello di chi non ha ben capito cosa sia successo.

Per Magatti l’epidemia è stato il terzo degli choc planetari che abbiamo vissuto negli ultimi 20 anni: «Il primo è stato l’11 settembre 2001, seguito dalla crisi finanziaria del 2008, dalla pandemia nel 2020. E ora si è aggiunta la guerra. Sono fatti indipendenti, ma tutti espressione di un’unica premessa: il fatto che abbiamo costruito un mondo potente ma disordinato in cui l’entropia e la complessità scatenano emergenze che hanno impatto su scala globale».

Per questo motivo, secondo il docente, sarebbe ingenuo pensare che, passata la crisi, si possa tornare a vivere come prima, fatte salve alcune misure precauzionali. Al contrario: occorre approfittare di queste crisi per correggere alcuni difetti cognitivi, che sopravvalutano la nostra capacità di  disinnescare le possibili fonti di nuove crisi. E la correzione è possibile a condizione di costruire un sistema che postuli come sua base  l’interconnessione:  quella tra noi e gli altri cittadini, tra il nostro e gli altri Paesi, tra noi e l’ambiente. Le crisi ci investono tutti, e nessuno è in grado di prevederle o arginarle senza coinvolgere tutti gli altri attori coinvolti.

Verso il new normal

Di qui Magatti elenca 3 ambiti di ripensamento per arrivare a un new normal: il primo consiste nel rivedere il nostro assetto economico e nel ritenere che, anziché determinati parametri economici, vada inseguita una condizione che renda possibile lo sviluppo umano senza distruggere le sue premesse. «In altre parole: se la nostra crescita comporta la distruzione di risorse naturali, o lo sfruttamento di alcuni Paesi a beneficio di altri, stiamo preparando il terreno per altre crisi, non ritornando alla presunta normalità».

Secondo mutamento: per combattere future epidemie occorre passare dall’idea che, contro di esso, basti aumentare la potenza del sistema. Piuttosto, bisogna identificare la cura come parte essenziale della nostra società. «Il Covid ci ha mostrato con chiarezza che le società avanzate sono piene di  persone fragili» rimarca Magatti: «E in un certo senso, siamo noi stessi a provocare tali fragilità, perché possediamo cure formidabili per soggetti che altrove sarebbero condannati a soccombere». Tuttavia, la medicina non esclude neppure da noi la comparsa di “scarti”: persone anziane, deboli, non produttive. E allora occorre rimediare a queste fragilità diffuse pensando alla cura come elemento costitutivo della società. La spesa pubblica va ridefinita considerando i soggetti vulnerabili e non solo l’aumento del Pil, che risolve alcuni problemi ma ne crea altri. E se c’è un insegnamento dalla pandemia è che non dobbiamo diventare solidali perché siamo “buoni”, ma perché siamo legati  strutturalmente al destino degli altri.

Infine va ridefinito il rapporto tra l’idea di libertà e il concetto di sovranità, che nasce con lo Stato moderno. Questa, in fondo, è anche la sfida interna alle democrazie: insegnare ai cittadini che la loro libertà è vincolata dagli altri, che si hanno obblighi ma anche diritti.

«Come già spiegava Hannah Arendt, tanto la sovranità quanto la libertà assolute non esistono» ragiona il sociologo. «Entrambe si danno solo in condizioni limitate dalle ragioni degli altri. Se quindi, di fronte a una pandemia, chiudiamo le frontiere illudendoci di evitare il problema è perché finora non abbiamo considerato nel nostro sistema politico, sociale ed economico, la relazionalità come elemento essenziale». Così facendo, per tenere a bada le istanze che non riusciamo a contenere, siamo destinati o al conflitto o alla iper-regolazione. 

Al contrario, la cosa importante non è pretendere di sciogliere questo continuo dualismo tra poli opposti – libertà e sovranità, cura e crescita, sviluppo o ambiente – bensì lavorare per costruire degli equilibri, pur se provvisori e instabili. “È l’unico modo di mantenere un’adattabilità e una resilienza che ci consentano di affrontare le prossime crisi senza esserne travolti”.  

Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​