L’influencer sei tu

Well being


L’influencer sei tu

Perché le persone proiettiamo sui creator digitali cose che vorrebbero possedere e che desidererebbero disperatamente cambiare.

L’invidia è un sentimento complesso, ingabbiato dentro una definizione che non le rende abbastanza giustizia. La delineano come una passione provata per un bene o una qualità altrui che si vorrebbe per sé; o come una disposizione generica di orgoglio che ci rende intollerabile che altri abbiano doti pari o superiori alle nostre, che riescano meglio nella loro attività o che abbiano maggiore fortuna. La descrivono come una rosa di emozioni – dalla rabbia all’ansia, dall’ostilità al rancore – che si scatenano davanti a ciò che, segretamente, desideriamo, ma non abbiamo. Considerando, invece, che le dinamiche di attivazione dell’invidia sono molto più eterogenee, possiamo ammettere senza remore che, almeno una volta, nel corso della nostra esistenza, ci è concesso di avvertirla.

Dante – che di certo non aveva un animo transigente verso taluni peccatori – colloca gli invidiosi nel Purgatorio, raffigurandoli seduti, in mutuo sostegno, con gli occhi cuciti. Ben prima delle più recenti riflessioni psicanalitiche o sociologiche, il poeta aveva intuito che la principale modalità di affermazione dell’invidia è lo “sguardo”. E che quest’ultimo non è biasimabile e punibile perché rivolto con desiderio all’esterno, ma piuttosto compatibile perché diretto severamente verso il proprio interno.

Nello sguardo dell’invidioso – avrebbe detto secoli dopo Freudc’è un io giudicante che – soprattutto qualora eccessivamente dipendente dal giudizio altrui – diventa punitivo e castrante verso le proprie azioni, qualità e pensieri. Semplificando: quanto più ci interessa il giudizio degli altri, tanto più il nostro Super-io è distruttivo verso noi stessi. E quanto più ci auto-giudichiamo severamente, sentendoci avviliti per quelle qualità, fortune e talenti che percepiamo di non possedere, tanto più invidiamo.

Proviamo invidia esattamente per chi rappresenta ciò che noi desidereremmo essere, ma non osiamo essere o pensiamo di non poter essere. Ma tale meccanismo è subdolamente autolesionista: cerchiamo di proteggerci dal dolore della nostra (presunta) inadeguatezza, proiettandola sugli altri. E spesso, verbalizziamo questo sentimento verde, criticando: ma solo al fine di creare una distanza emotiva verso ciò che ci fa soffrire. Dietro l’invidia si nasconde una sofferenza personale, una impotenza, un autorevole io giudicante che sottolinea le nostre mancanze.

Nella concezione di Erodoto, l’invidia degli dèi verso gli uomini si scatena quando la loro prosperità supera il limite assegnato. Oggi, dall’Olimpo delle nostre professioni, mestieri e attività – serie, affaticanti e ordinarie – noi dèi caduti sulla Terra osserviamo sgomenti questi individui la cui prosperità – in termini economici e mediatici – supera di gran lunga il limite da noi (arbitrariamente) assegnato nel “consentito”: gli influencer.

È inaccettabile assumere, dall’alto dei nostri lavori immortali e imperituri – in qualsiasi settore essi siano –, che un individuo possa aver guadagnato fama, denaro e fiducia oltre misura, “semplicemente” influenzando comportamenti e scelte di un determinato pubblico su una o più tematiche. Che abbia – per dirla alla Bordieu – accumulato capitale economico, culturale e sociale in modalità che ci sono incomprensibili. Ed ecco l’invidia.

L’obiezione più grande che mi si potrà apporre è che non c’è alcuna invidia, ma solo un giudizio di valore fondato sull’inautenticità e sulla rappresentazione filtrata di questa piccola percentuale di persone che influenza una grande percentuale di pubblico. Ma io parlo di altro: non di una valutazione critico-soggettiva, ma di una riflessione più ampiamente sociale.

Perché – al di là dei giudizi di valore sulle singole identità, al di là, cioè, della capacità di riconoscere il valore intrinseco dei messaggi diffusi da un influencer, e persino al di là della nostra abilità nel captare la sete di engagement che spesso porta tale personaggio in un ciclo autodistruttivo – dobbiamo ammettere che almeno una volta abbiamo invidiato qualcuno di questi mortali che sfidano gli dèi, alla Prometeo. Abbiamo invidiato non solo chi, in una società che celebra il consumo visibile e lo status, mostra questi segni di successo, ma anche coloro i quali influenzano, facendo divulgazione, impegnandosi politicamente, e attivandosi nel sociale (dunque, anche quelli “più moralmente accettabili”).

Ma è giunta l’ora dell’esame di coscienza: perché la verità – scientificamente accertata da un punto di vista ampiamente scientifico – è che proiettiamo sugli influencer (essere umani in carne e ossa, certo; ma anche simboli visivi) aspetti di noi stessi che non accettiamo di non possedere e che desidereremmo disperatamente cambiare. La conseguente critica non è altro che un’espressione di una violenta frustrazione verso le proprie aspirazioni non realizzate; un riconoscimento – spesso, appunto, inaccettabile – del baratro tra il desiderio e la realtà. In altri casi, il biasimo non è altro che un tentativo di allontanarsi da quel mondo (segretamente desiderato), per rafforzare la propria identità, affermando di non voler essere come quella persona o di non voler possedere quello che lei detiene.

L’invidia – sin dall’intuizione di Dante – è un sentimento visivo: ed è ancor più potente, dunque, in una società visuale. Ma fortunatamente il Purgatorio è il luogo dove si possono elaborare le capacità soggettive di combattere le più potenti passioni distruttive: soprattutto quelle contro noi stessi.

Ricercatrice su temi antropologici, storici e sociali, ha indirizzato i suoi studi sui cambiamenti epistemologici del presente, specializzandosi nell’ambito delle innovazioni digitali, della sociologia e della sostenibilità. Ha proseguito la sua attività di ricerca per aziende private, governi e organizzazioni multilaterali, supportando strategie di investimento in Nfts e in nuove tecnologie ai fini di un potenziamento di soft power; o guidando la riflessione sull’utilizzo degli spazi e delle leve del Metaverso per scopi politici e geopolitici. Ha fornito consulenza a marchi di lusso e di consumo, thought leaders e istituzioni finanziarie su come integrare la sostenibilità nei loro sistemi e su come creare e inquadrare value propositions relative al futuro del lavoro. Lavora come ricercatrice per il Future Food Institute, una fondazione no-profit che sta stimolando un cambiamento esponenziale nel sistema alimentare globale.